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11 settembre 2020 5 11 /09 /settembre /2020 09:50

 

 

Nell’estate 1956 io avevo cinque anni. Mio padre e mia madre vivevano sani e felici in una Valdagno che festeggiava il raggiungimento del titolo di città, il monumento a Marzotto e le speranze legate all’avvio del miracolo economico. In realtà due anni prima c’erano stati 138 licenziamenti per esubero di personale.

A Recoaro invece le stagioni turistiche termali erano in auge e richiamavano gente da tutta Italia. Si organizzavano frequentemente gite in pullman fino all’Ossario del Pasubio per mostrare la bellezza delle Piccole Dolomiti e tra queste, quella di Sabato 11 settembre 1956, che si concluse col pullman nell’abisso.

Il fatto

Alle 15:45 in località Boal de la Bante il vecchio pullman rosso tipo Leoncino a suo tempo collaudato per 23 passeggeri, ne trasporta 27 verso l’Ossario del Pasubio ma durante una sosta precipitò nella scarpata per 135 metri causando 15 morti e vari feriti nei cinque successivi, drammatici colpi d’impatto della caduta.

Il giovane autista Giuseppe Girotto verrà condannato il 20 Luglio 1957 a cinque anni e 4 mesi, confermati in appello, con l’accusa di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime. Il risarcimento dei danni ammontava a 14 milioni di lire e fu a carico dell’autista nonchè della ditta di autotrasporti. Venne invece assolta l’Azienda Turistica che aveva organizzato la gita, facendo regolarmente pagare 700 lire al biglietto.

Cause e dinamica dell’incidente.

Piovviginava e l’autista accostò per tergere l’appannamento del cristallo. Non riuscendo completamente a farlo dall’interno ed essendogli caduto il panno egli scese per recuperarlo ma non riuscì più a salire perché nel frattempo il movimento indietreggiante del pullman aveva innescato il panico tra passeggeri che ostruivano l’unica portiera.

Le perizie dimostrarono che il pullman, un po’ vecchiotto ma con 85.000 Km, oltreché essere sovraccarico aveva il freno a mano inefficiente, le gomme consunte all’80% e il tergicristallo rotto. Il conducente sostenne di aver spento il motore e innestato la retromarcia nonché girato le ruote a monte, ma la perizia smentì questa ricostruzione trovando innestata la terza marcia e giunse alla conclusione che concomitanza di marcia alta, freno difettoso e forte pendenza (13%) causarono la messa in movimento del pullman. Il mezzo cadde all’indietro abbattendo anche un muretto stradale e con l’autista aggrappato alla portiera col piede sul predellino.

Il mistero del cambio

La tesi difensiva dell’autista, che era figlio del capo dei vigili urbani della città di Valdagno, era di aver rispettato tutte le misure di sicurezza del caso compreso l’innesto della retromarcia a motore spento e che l’asta del cambio a suo dire era stata spinta in folle durante il trambusto delle persone accalcate nel tentativo di scendere. Ma la perizia accertò che durante la caduta la marcia innestata era la terza e che non sarebbe risultato possibile lo sblocco della marcia senza l’uso della frizione per l’esistenza di un dispositivo apposito montato in serie. La questione del cambio non fu mai chiarita e alcune testimonianze avvallarono in parte la tesi del Girotto secondo la quale qualcuno dei passeggeri era intervenuto sul posto di guida.

 

I soccorsi

La comitiva non era composta solo dalle 27 persone sul pullman, c’erano anche altri passeggeri in due taxi che seguivano. Constatata la tragedia uno di questi si recò a dare l’allarme presso il custode dell’ossario il quale chiamò i carabinieri che furono i primi a raggiungere il luogo. Le vittime furono soccorse dalle autoambulanze dell’epoca con l’aiuto del soccorso alpino e furono trasportate anche all’ospedale di Valdagno durante le varie ore del pomeriggio. Tra i soccorritori Gino Soldà che collaborò al trasporto manuale dei feriti uno dopo l’altro a partire dai più gravi. Per ultime le salme fino a dopo il tramonto e nel giorno successivo, distribuite lungo tutto il percorso della caduta, anche in cima agli alberi.

L’autista non si trovava perché si era dato alla fuga e le ricerche furono inutili. Egli si costituì alle forze dell’ordine due giorni dopo dichiarando di aver vagato per boschi e malghe come un fantasma.

Il primo bilancio comunicato alla stampa fu di nove morti, ma presto giunsero a 14. Tra di essi una coppia di sposi in viaggio di nozze trovati abbracciati tra le lamiere accartocciate. Infine l’anziana marosticense Caterina Minuzzi che, seduta accanto al posto di guida era stata la prima a scendere dal pullman, morì successivamente presso il nosocomio di Valdagno e fu enumerata tra le vittime portando il totale a 15.

Una bambina veronese di nome Asia si salvò, ma perdendo i genitori.

 

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Tratto da Giro di Nera di Alberto Belloni

 

 

 

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22 novembre 2018 4 22 /11 /novembre /2018 16:50

 

 

Ludmilla godeva in bicicletta. Più pedalava e più godeva. Teneva il rapporto basso per pedalare più forte e godere di più in meno strada. Il rapporto era inversamente proporzionale soprattutto in salita ove lei soleva pedalare e godere furiosamente, con tanta energia. Arrivava doppiamente sudata, stanca ma felice. Il problema era in discesa, quando pedalava poco e faceva un sacco di strada. Odiava le discese. Erano diseconomiche, le ghiacciavano le mani e l’aria che entrava nella scollatura le raffreddava la pancia. A poco servivano i guanti e le magliette a collo alto: arrivava comunque annoiata e stizzita. E soprattutto non godeva quasi mai. Doveva tenere il rapporto alto e pedalare piano, doveva frenare e stancare le dita. Insomma doveva soffrire pedalando inutilmente.

Un bel giorno di primavera uscì di strada in discesa mentre pedalava a vuoto come una pazza. Con gran fortuna non si fece niente e si accovacciò per riprendere fiato e riflettere.

Già. Si rese conto che non era la quantità percorsa che contava nella sua vita ciclistica, ma la quantità goduta. Nel suo intimo ordine di valori il rapporto pedale/chilometro era sostituito dal rapporto di orgasmo podalico. Ludmilla era ciclovenerea, orgasmopodalica e discesofoba. Erano queste le cause dei suoi continui stati ansiogeni. L’unica soluzione era la pianura. Se ne fece una ragione e pedalò in pianura. Meno orgasmo/meno freddo, più pedale, più godimento a parità di strada percorsa. Il rapporto era direttamente proporzionale. Forse poco stimolante, insomma un po’ banale. Ecco, sì. Trovò la giusta definizione e se ne fece una ragione: d’ora in poi la sua vita ciclistica sarebbe stata “orgasmobanale ma ciclomensurale”.

Alla fine quindo, grazie al piano orizzontale, Ludmilla visse felice e pedalò contenta fino alla fine dei suoi chilometri.

 

 

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22 ottobre 2018 1 22 /10 /ottobre /2018 20:59

 

 

il 14 ottobre del ’68 era un Lunedì. Mio padre, dopo 5 anni di vedovanza, si era risposato ormai da un anno con una operaia Marzotto che era maestra di orditura e faceva i turni. Avevamo cambiato casa passando da via Ugo Foscolo a via Carducci. Uno spostamento di una decina di metri in linea d’aria. Questo appartamento, anch’esso costruito da Marzotto ed assegnato con contratto di riscatto, era più piccolo, ma ben arredato e non mancava, ovviamente, la televisione. Ci volevano quattro piani di scale per raggiungerlo, ma aveva uno comodo scantinato facilmente accessibile. Ed era lì che mi rifugiavo dopo cena per fumare, cosa questa ancora altezzosamente vietatami nonostante i miei diciassette anni.

 

               …

 

Quella sera di metà ottobre 1968 lasciai mio padre che fumava in cucina guardando i giochi olimpici e, una volta scese le scale a saltoni, mi recai alle panchine. Volevo fumare e chiacchierare con i miei amici. Ricordo che non si parlò della sanguinosa repressione studentesca appena avvenuta a Città del Messico, dove si tenevano appunto le olimpiadi, una repressione che vide la polizia aprire il fuoco sulla folla dagli elicotteri massacrando cinquecento studenti che manifestavano, ma si parlò di Hey Jude.

 

Questo pezzo dei Beatles nell’ottobre novembre di quell’anno primeggiava in classifica in mezzo mondo e divenne presto il preferito nelle nostre festine in cui si ballava stretti a luci spente. La sua forza, dal nostro punto di vista, era l’ultima parte molto lunga e ripetitiva, che costituiva il momento giusto per tentare il bacio appassionato. Già, infatti il bacio era considerabile “appassionato” solo se era effettuato con l’apporto della lingua mentre quello senza lingua non costituiva peccato con obbligo di confessione (salvo se accompagnato da cattivi pensieri). Quindi l’ultima parte di Hey Jude era, nel nostro sistema di valori, decisamente peccaminosa. E ciò rendeva quel pezzo affascinante e trasgressivo.

Ma non era cosi per i più politicizzati di noi. E qui occorre precisare che tra le panchine dove si cominciava a sentire l’aria del sessantotto, a politicizzarsi furono prima quelli di destra. Infatti la discussione della serata verteva sul tentativo di rifiutare quella canzone perché “israelita”. Il testo, secondo i destrorsi che si vantavano di conoscere l’inglese, si rivolgeva agli ebrei perché JUDE veniva inteso come “giudeo” e un successivo verso veniva inteso come “remenber the letter under your skin” considerandola una allusione al tatuaggio sulla pelle degli internati nei campi di stermino. Ora, la vicenda dei campi di sterminio con annessa camera a gas non era considerata vera dai nostri amici filonazisti i quali, è giusto precisare, lo erano molto ingenuamente e con approccio piuttosto infantile. Pertanto in quella fantasiosa interpretazione della canzone si vedeva un messaggio comunista filoebraico. “E’ stato il mona di John Lennon che ha perso la testa per quella …(poco di buono)… di comunista giapponese (Yoko Ono) a cambiare lo stile dei Beatles e metterci dentro la politica!” disse il più accalorato sostenitore della tesi negazionista. Mentre quelli come me che non sapevano l’inglese pensavano semplicemente che “gionleno” stesse dando un po’ i numeri per via dell’erba marijuana. La discussione fu lunga e accalorata. E forse anche troppo gridata e sboccata tanto da farci richiamare dal prete i giorni successivi. Pare che ci sia stata anche una richiesta, una petizione, da parte di alcune signore bene con le finestre affacciate lungo il viale delle panchine, affinché le panchine stesse venissero benedette al fine di scacciare il demone del turpiloquio. Ma alla fine l’intero gruppo di panchinari rimase unito e trovò relativa pacificazione nel convenire che in fin dei conti Jumping Jack flash dei Rolling Stones, era molto meglio di Hey Jude.

Sapevamo, perché ne aveva parlato Arbore a “per voi giovani” che questa canzone era stata composta durante l’estate da Keith e Mick una mattina dopo una notte brava, ma non sapevamo che essa, come racconta oggi Philip Norman, era stata riadattata nel testo in un’ottica censoria verso i genitori. Mick infatti non scriveva mai i propri testi, li improvvisava al microfono e così colei che lo trascrisse (Shirley Arnold) consapevole che quel giorno stava arrivando la madre di Mick per la visita settimanale, tagliò il verso “I was raised from a toothless, bearded hag” (sono stato allevato da una strega sdentata e barbuta) che fu poi ri-aggiunto nel 45 giri.

 

Oggi, cinquant’anni dopo, potendo disporre di un po’ di buon senso si può tentare di chiarire che il fattore decisivo che fece convergere la compagnia su quel pezzo molto ritmato e aggressivo, fu la convinzione che esso pur non avendo un momento buono per il bacio, faceva saltare le ragazze donandoci il relativo ballonzolamento dei seni. Occorreva però tenere le luci, seppur moderatamente, accese.

Ma alcuni di noi sanno, forse quelli più moderatamente sinistrorsi, che nel successivo periodo delle festività natalizie, quando si preparavano le prove per lo Stu-show dell’ANNO SCOLASTICO 1968/69, si era già affermata la pratica di far suonare prima i Rolling Stones per scaldare la festa e poi, a luci spente, i Beatles per baciare le ragazze.  Ragazze le quali, accaldate, non sempre avevano chiaro con chi stavano ballando e più di qualche volta generarono un po’ di confusione sotto l’effetto del verso che dice: “Hey Jude, don’t be afraid but take a sad song and make it better”. Anzi una li loro, che diceva di sapere l’inglese, mi disse che “remember to let her under your skin “ voleva in realtà dire:  “ricordati di lasciarla sotto la pelle”… Ed è proprio ciò che feci… Già. La differenza tra “Letter” e “Let her” può cambiare una storia.

 

Ma oggi, dicevo, che disponiamo di wikipedia e di libri che raccontano la vera storia dei Beatles, come ad esempio Shout! e/o Mick Jagger di Philip Norman, sappiamo dettagli che allora ci sfuggivano. Innanzitutto i giudei, le camere a gas ecc. non c’entrano niente con Hey Jude. Così come in Jumping Jack Flash non c’entrano i lampi sulle danzatrici saltellanti, ma semmai qualche fiaba o la diabolica pioggia di bombe della seconda guerra mondiale. Inoltre Hey Jude l’ha composta Paul con solo qualche sporadico suggerimento al testo da parte di John. Infine i Beatles erano profondamente divisi all’epoca con Paul (qualcuno dice Faul) che stava lanciando la Apple su una dimensione melodica scarsamente rivolta al rock. Anzi aveva appena prodotto il successo di Mary Hopkins “Those were the days” che volava in testa alle classifiche rimanendo seconda solo, appunto, a Hey Jude. Quella canzone in Italia era cantata da Gigliola Cinquetti e diceva “quelli eran giorni si, erano giorni che … noi ballavamo anche senza musica e quando il semaforo segnava rosso noi passavamo allegri ancor di più…“ecc. cioè si evoca il ballo come fattore di libertà trasgressiva. I nostri argomenti erano quindi sulla bocca di una cantante che consideravamo superata dal rock, inteso come espressione della nuova libertà.

 

Ma il dettaglio che possiamo sapere solo oggi è che quella canzone (Those were the days) venne usata come inno durante la fucilazione di massa che represse il tentato golpe in Guinea Equatoriale nel Natale del 1975. Il presidente Nguiema, che era salito al potere proprio a metà ottobre del 1968, aveva poi fatto fucilare nello stadio della capitale, i 150 traditori golpisti.

 

Da una fucilazione all’altra, da Città del Messico a Malabo passando per il ballo e il tradimento: Veritas filia temporis.

 

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27 maggio 2017 6 27 /05 /maggio /2017 20:00

 

La direttrice del Santuario ci accoglie accompagnata dal giovane Servo di Maria e ci conduce nella cappella interna, modernamente arredata, ove lumeggia il candelabro del Santissimo. Volgendo a Lui le spalle, non certo per irriverenza, ma per calcolo acustico, il Coro inizia gli esercizi di respirazione e riscaldamento vocale. Sollecitazioni dei diaframmi, e impegnativi svuotamenti del volume toracico ridisegnano in pochi secondi le linee dei corpi, in particolare quelli femminili che, superbamente agghindati, si proiettano nel denso strato di armonici del Mi bemolle.

“Bocca chiusa, dov’è il suono?” Dice il maestro con voce sferzante.

Il suono è lì, tra la punta della lingua, la dentatura vibrante e le labbra. Sì, le labbra mute e frementi che caricano via via il suono di una densità carnosa che attutisce un po’ la vocalità, ma al tempo stesso lo arricchisce degli armonici più bassi. E la sala diventa profonda. Con le voci maschili siamo quindi immersi nel suono vocale, il nostro e quello degli altri. Ecco, è lì in quel momento, in quel contesto, che il Coro rinasce ogni volta. Il concerto che seguirà nasce lì perché quello è il momento della fusione, quando le voci diventano unità e il turbillon della perfetta armonia avvolge i nostri corpi. Li circonda, li penetra e riceve da esso, il corpo con tutte le sue membra, il feed back totale. Ecco, siamo un sol corpo. E qui dal Mi bemolle possiamo levarci dolcemente verso la quinta che, raggiunta, ci donerà la tensione verso il ritorno alla tonica.

“Attenti a non calare, pensate di salire! “ Dice il maestro con voce suadente.

L’esplorazione dell’intervallo di quinta prosegue ripetuto in vari gradi della scala diatonca e forma la nostra percezione tonale. Da quel momento possiamo iniziare il canto. Dal suono al canto. Inizia il viaggio dell’anima.

*

Il Santuario è illuminato, strapieno e rumoreggiante di seggiole e colpi di tosse. Il Coro prende posizione nel transetto, tra le pietre ove il sole del tramonto filtra gli ultimi raggi d’occidente. E illumina l’Oriente nel suo mistero.

“ Deus in adiutorium meo intende”

… L’invocazione del dominus pervade immediatamente la navata e di pietra in pietra l’eco di quelle parole potenti, la formula di Gregorio Magno, impongono il silenzio totale.

“ Domine, ad adiuvandum me festi – ina…” …

Di colpo la monodia avvolge i silenti nella fede, e chi tra il pubblico fede non ha, predispone comunque il proprio animo all’ascolto. Fede e ascolto ora si associano e accolgono il canto. Trepidazione. Il cantore avverte il flusso tellurico salire per le gambe, sino al brivido dell’inguine e il primo suono prende forma nel respiro, il respiro del Coro.

“ In Te, Domine speravi”.

Le quattro voci del canone dischiudono questa atmosfera sospesa annunciando il viatico del Signore perché è In Te, o mio Signore, che ho riposto ogni speranza. Ora fa che io non sia mai confuso in eterno affinché io possa essere libero nella Tua giustizia.

Non importa che sia il Salmo trentunesimo, composto a Norimberga da Hassler per i suoi Canti di Chiesa, importa che qui il cantore si libera e scioglie la voce da ogni indugio ponendosi nella sacra polifonia della Riforma, dove le voci una dopo l’altra, una nell’altra, lanciano l’anima nella vertigine del tutto; e il tutto è maggiore della somma delle parti.

Non c’è la fede? Forse no, non c’è ancor la fede in Dio, ma c’è il canto. E c’è il Coro che della fede nel canto fa ragion di propria vita.

 

                                                                           *

 

Grazie o coro per la gioia che mi dai. Amo tutti i tuoi armonici e li bacerei ad uno ad uno, per sempre. Soffro ogni distacco e sogno ogni tuo abbraccio. Soffro la pena della vita ma preparo l’eterno. Così sia.

 

 

 

 

 

 

 

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12 novembre 2012 1 12 /11 /novembre /2012 23:33

foto-di-Arnulf-Rainer.JPGA Valdagno una sera di ottobre 1928 Lidia e Albino, due ragazzini cresciuti troppo in fretta, salgono angosciati le scale di un’altra casa, quella della nonna. Con loro non ci sono i due fratellini più giovani Alfreduccio e Giannina rimasti a casa loro con la madre e il padre. L'anziana signora tutta d'un pezzo li riceve con sorrisi di circostanza e offre loro la cioccolata calda.

La ragazza, che aveva in proposito ricevute istruzioni precise dal padre, comincia ad esporre il motivo della visita: le cambiali della ditta paterna sono all'ultimo giro e se non vengono pagate sarà il disastro finale. Il fallimento.

La vecchia se la ride di questi problemi e mostra tutta la sua cattiveria sfoderando lo spirito di vendetta di cui è capace. Con parole dure accusa il figlio di ribellione e con perfidia espone la sua tesi: egli osò sposare una puttana e ciò costituisce  oggi la causa del fallimento.

" Per forza tuo padre non ce l'ha fatta. Ha sposato quella volgare donna che è tua madre e non ha potuto evitare lo sperpero del danaro che io gli avevo dato. E' colpa di tua madre! Quella puttana che mi ha rubato il mio Simone... E oggi con che coraggio ti manda qui da me a chiedere ancora denaro. Con quale coraggio tuo padre manda i due figli affamati anziché mostrare il muso alla donna che lo aveva avvertito!".

Albino, che non è certo il ragazzo più sveglio della famiglia, si butta sulle ginocchia della nonna nel pietoso tentativo di abbracciarle le gambe, ma lei lo respinge. E lo allontana con parole terribili:

Tu! … Tu sei il frutto di quel peccato! Guardati, alla tua età dovresti essere un uomo, dovresti aiutare tuo padre a condurre l’officina, invece sei un bamboccio sempre attaccato alle gonne di tua madre. Vai, torna da lei e dille che stavolta la pagherà cara la sua lussuria… E che da questa famiglia non avrà più un centesimo!”

Lidia ha l'animo troppo dolce e sensibile per accettare quelle parole. Da dieci giorni il padre è disperato e lei lo ha visto piangere. Ora, suo padre, l'eroe supremo piegato e ridotto a tal punto trova nella vecchia un nuovo nemico; un nemico morale che lo colpevolizza ancor più. No! Lidia non accetta questa verità e sente una fitta allo stomaco. Un senso di fastidio che associa ancor più al pensiero della propria madre, così maldestramente evocata nelle parole della nonna. Sua madre, quella donna che ogni notte le ruba il padre e che forse oggi, come non bastasse, lo sta portando alla catastrofe.

E se la nonna avesse ragione? Se fosse vero che quelle mani che oggi puntano il dito indice accusatore contro sua madre avevano un giorno indicato la retta via? Mio dio che disgrazia: il padre fuorviato da una ballerina stupida e infelice. Un padre ingannato che non ha saputo cogliere il segno di quelle mani. Quelle stesse mani che ora le stanno servendo la cioccolata con lo zucchero, zucchero... tanto zucchero. Troppo zucchero.

No! "Nonna non mi piace questa cioccolata... ha troppo zucchero."

 

*

 

Il giorno dopo il padre non aprì il cancello dell’officina. Si recò coi figli dal direttore della banca e, col cappello in mano, glieli indicò nel tentativo di impietosirlo. Ma fu tutto inule. Dovette chinarsi a firmare le carte. Quelle carte che, sapeva, gli avrebbero causato il pignoramento di ogni bene.

Disse ai figli di tornare a casa da soli. Disse a Lidia di portare a casa i fratelli, anche quello più vecchio, e lo disse solo a lei perché di lei, solo di lei si sarebbe fidato. Pur conscia della tragedia Lidia ne fu orgogliosa e lo fece con grande determinazione. La stessa determinazione con la quale la sera tardi si rifiutò di obbedire alla madre che le ordinava di andare all’osteria a cercare il padre per farlo rincasare.

Papà tornerà da solo!” disse “E tornerà con i soldi per la banca, vedrai!”.

Ma papà non tornò. Rimase assente per tutta la notte e anche il giorno successivo. E di lui non si sapeva niente, né in piazza né in casa. Finché il figlio più giovane Alfreduccio non entrò di corsa in cantina perché mandato dalla madre a prendere legna per il focolare. Spalancò la porta di corsa, Alfreduccio, come sempre faceva, ma questa volta si trovò le gambe penzolanti del padre davanti agli occhi.

In quel mattino di fine autunno del 1928 il piccolo Alfreduccio corse, corse, corse fino allo stremo nel tentativo di dimenticare la scena in cui il padre veniva tirato giù. Era nudo, il padre, dalla cintola in giù. E così lo ricordò per trent’anni: appeso per il collo, la testa storta e i pantaloni calati sulle scarpe infangate. Col vestito da festa per una tragedia.

La salma del suicida venne sepolta senza cerimonie, com’era costume al tempo, nel pezzo di terra sconsacrata ove ancora giacevano salme senza memoria di soldati giustiziati per diserzione nella prima guerra. Un luogo del cimitero lontano dalla tomba di famiglia. La salma della nonna invece, morta poche settimane dopo di crepacuore, come si diceva al tempo, venne sepolta con mesta cerimonia funebre, nella tomba di famiglia. E lì giacquero le salme entrambe fino a quel giorno del 1958 in cui i becchini abbatterono, per una nuova ristrutturazione, l’ala cimiteriale in cui esse stavano.

Quel giorno d’autunno di trent’anni dopo Alfreduccio e con Lidia, assistettero alla riesumazione e versarono una lacrima sopra ciò che restava del vestito paterno. Una lacrima di verità amara come la cioccolata di cacao senza zucchero.

La salma nella bara sentì quella lacrima, la sentì con tutta la sua verità e il suo gusto. E quando la bara fu riposta accanto a quella della madre, la salma parlò … e disse:

Mamma non mi piace questa cioccolata... ha troppo zucchero.

 

 

 

 

 (la foto in alto a destra è opera dell'artista austriaco Arnulf Rainer)

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11 ottobre 2012 4 11 /10 /ottobre /2012 21:11

BORTOLAMI-foto.JPGLa Regione, in tempi di Spending Review, sapeva di poter permettersi questi costosissimi impianti solo in un territorio nel quale gli imprenditori fossero disposti a donazioni remunerative, perciò sostenne varie poaratiche di autofinanziamento locale. L’affare venne preparato con somma discrezione dal Padre Vescovile che seppe riportare alla fede il grande (nonché spregiudicato) imprenditore Delfo Marsolato ormai in fin di vita. I figli, che erano di tutt’altra pasta, finanziavano infatti Scientology e il padre vescovile aveva capito che l’eredità sarebbe andata in “cattive mani”. Pertanto la discreta conversione fruttò qualche milioncino di Euro che finirono in una fondazione per la ricerca sul cancro, il cui CdiA (composto di preti, suore e vecchie zitelle appartenenti a grandi famiglie industriali) adottò il progetto “Atomi di Dio” per la salute e la redenzione della persona umana.

L’unità operativa di Medicina Nucleare venne pertanto localizzata presso la ASL della zona Est della ricca provincia pedemontana.

Il sindaco Armisi, noto alle cronache per il suo vivace spirito di iniziativa, presiedeva allora la Conferenza Pedemontana Consortile e sapeva che solo il rilancio dell’ospedale lo avrebbe rieletto al secondo turno, e sapeva anche che ogni finanziamento o ristrutturazione che giustificasse una prospettiva di rilancio del vecchio ospedale passava attraverso la disponibilità all’allocazione di un moderno reparto di Medicina Nucleare. Pertanto dedicò grande impegno, e umana passione, al progetto. Ma il suo piano, haimè si scontrava con quello di Simiani, sindaco uscente del comune limitrofo, che puntava alla propria candidatura come Consigliere regionale. A tale scopo il Simiani per finanziarsi la campagna elettorale aveva garantito, e già avviato senza tante “pastoie burocratiche”, la costruzione dell’inceneritore di salme.

Il punto è che, in vista di tale importante infrastruttura consortile, parecchi altri comuni limitrofi avevano ristrutturato le loro aree cimiteriali per le future dispersioni di ceneri, riducendo di conseguenza le superfici da riservare al sotterramento con notevole beneficio strategico, perché ciò permetteva di destinare maggior superfici alla costruzione di capannoni industriali. Insomma, per farla breve: l’arrivo della Medicina Nucleare avrebbe reso inutili le nuove aree di dispersione cimiteriale perché, notoriamente, le ceneri radioattive non potevano essere “ivi cosparse”.

Lo scontro politico fu molto duro. Gli amici di Armisi, mossi da umana passione, raccolsero nelle parrocchie oltre diecimila firme contro l’inceneritore (di salme) mentre l’ASL diffondeva bollettini che decantavano i successi della Medicina Nucleare con la benedizione del vescovo. Dall’altra parte i Comitati per la difesa della Salute raccolsero oltre diecimila firme nelle piazze dei mercati e nelle sagre paesane in nome di una petizione antinucleare (Medicina) sostenuta dall’ASSOCIAZIONE della INDUSTRIA ARTIGIANA. E questa galvanizzazione dell’interesse popolare rese impossibile, nel senso di elettoralmente inopportuno, ogni dialogo tra le parti. Successivamente, con l’approssimarsi delle elezioni il clima si fece infuocato e nelle scuole iniziò a prendere forma il comitato per la Salute e la Salvaguardia del Futuro che riscosse particolare successo nelle Medie Superiori. Il formicolante sommovimento andò avanti spontaneamente fintantoché, con l’adesione dei sindacati, non si determinò una fusione dei vari gruppi tale da portare alla nascita del Comitato NO Cimiteri  ATomici e assunse rilevanza nazionale tale da determinare l’arrivo della troupe giornalistica del popolare programma “Chi l’ha chiesto?”.

 

*

Dopo le elezioni, che videro sia la conferma di Armisi al secondo mandato, sia l’elezione di Simiani a Consigliere regionale, la situazione anziché calmarsi si aggravò a tal punto che, contrariamente alle previsioni del direttore del GIORNALE PEDEMONTANO, quotidiano provinciale a larga diffusione, la Commissione Prefettizia dichiarò lo stato di allerta ordine pubblico. I parroci cominciarono a tenere omelie domenicali che invitavano alla calma e alla preghiera mentre l’ala dura del movimento, i disobbedienti NO CAT, come risposta a tale “provocazione poliziesca” piantarono le tende davanti ai cimiteri, con sit-in di prodotti biologici e volantinaggi ai funerali.

A complicare la situazione poi sopraggiunse un evento particolarmente delicato in termini di ordine pubblico e destinato ad avere particolare rilevanza mediatica: il summit internazionale per la preparazione dei giochi paralimpici invernali. Tale evento era ben visto dalle amministrazioni e dalle categorie economiche altoplanari perché offriva l’opportunità di richiamare in zona investimenti nei settori dell’edilizia per disabili, dei servizi innovativi e del turismo sportivo. Insomma un appuntamento che l’economia locale, in crisi da globalizzazione, non poteva perdersi.

Con l’inizio del nuovo anno scolastico e la riapertura degli istituti la situazione passò quindi sotto il monitoraggio dei tecnici del Ministero degli Interni, assistiti  da consulenti internazionali in rappresentanza dei paesi coinvolti nel meeting internazionale come Inghilterra, Qatar, Cina, Brasile, Israele ecc. accanto ai supervisori della UE. Il Ministero degli Interni nominò un commissario prefettizio scelto tra gli ex direttori generali della Protezione Civile, il quale  iniziò col dichiarare illegale la pratica di campeggiare davanti alle chiese e quella di affiggere adesivi NO CAT sopra i campanelli di abitazioni private ed edifici pubblici. I sindaci dei comuni “simianisti” infatti, sostenuti anche dai sindacati dei dipendenti comunali, erano restii ad utilizzare i vigili urbani per far sgomberare i piazzali delle chiese e assumevano atteggiamenti di completa tolleranza nei confronti del movimento. Mentre l’unica associazione favorevole alle posizioni Armisiane era la Protezione Civile, appoggiata in parte dalla Croce Rossa locale.

Dopo i primi mesi di schermaglie propagandistiche il movimento NO CAT indisse una grande manifestazione “contro la repressione nucleare e per la salute del territorio cimiteriale pedemontano” fissata per il 2 novembre, giorno dei morti, che in quell’anno cadeva di sabato. Ad essa aderirono varie associazioni anche internazionali determinando forti apprensioni nel mondo politico e nella rete istituzionale. I parlamentari della provincia sottoscrissero un appello trasversale alla pacificazione “in nome della salute collettiva e del rispetto dei nostri morti” ma solo pochi giorni dopo il commissario prefettizio Cestelli dichiarò di avere informazioni attendibili da fonti di intelligence, secondo le quali elementi provocatori dell’area anarco-spiritualista stavano preparando attacchi terroristici dimostrativi contro obiettivi cimiteriali.

Venne predisposto un piano di mappatura dei cimiteri e delle tombe in cui erano avvenute tumulazioni di salme non cremate e relative a persone che in vita erano state oggetto di cure con trattamenti medico-nucleari. Seguì la creazione di un “Comitato di pacificazione” che fosse rappresentativo delle varie posizioni in campo. La Croce Rossa si fece promotrice di una proposta di legge di iniziativa popolare per la istituzione urgente di un “Registro nazionale delle salme e delle ceneri nuclearizzate” al fine di “prevenire la diffusione di fonti radioattive connesse con inopportune pratiche sanitarie e/o funerarie ” ma la proposta si arenò sul tema del divieto di tenuta in edifici privati non cimiteriali di ceneri radioattive e sul tema delle competenze giurisdizionali. Il Governo sollecitò pertanto, con grande urgenza, un pronunciamento del Garante della Privacy il quale, preso in esame il quesito con inusitata sollecitudine, dichiarò lesiva della privacy funeraria ogni misurazione post mortem dei parametri corporei “ivi compresi tests geiger counting” per la  misurazione della radioattività di salme relative a persone che non avessero dichiarato in vita la disponibilità a tali esami post mortem. La questione veniva pertanto rimandata al tema del testamento biologico impantanandosi definitivamente.

 

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Il giorno della manifestazione arrivò inesorabilmente. Il prefetto Cestelli aveva più volte mandato segnali di pericolo terroristico e così avvenne. Alle quattro del mattino, in quattro cimiteri lontani dal percorso dei cortei, esplosero quattro salme. Un volantino di rivendicazione venne ritrovato alle 16 (ovvero le quattro p.m.,  acronimo, quest’ultimo, che gli esperti di intelligence decodificarono brillantemente nella allocuzione “Post Mortem”) nel fax della sede ANSA di Londra. Risultava spedito dalla sede ANSA di Bengasi e riportava dettagli sui cimiteri colpiti. In particolare venivano indicati, anche nella versione araba del volantino, il nome e la data delle cure medico-nucleari ricevute in vita dai defunti esplosi: Benedetta Scortegagna e Teresina Bedin, nata Scortegagna, Luigino (Gino) Campanella e Maraschin Pietro, detto anche, in bocciofila, Piero Moro. I nomi di queste  quattro salme martirizzate fecero il giro del mondo, pronunciate nei modi più strani, ma sempre con grande senso di cordoglio nell’espressione delle annunciatrici televisive. Nella rete della TV araba Al Jazeera in particolare venne mostrata ripetutamente la foto mortuaria di Teresina Scortegagna che portava il velo.

Gravi e ripetuti furono gli episodi di violenza e devastazione. Squadre di Black Block NO NUKE dotati di una maschera facciale a forma di teschio piangente invasero i cimiteri di vari comuni montani filmando violenze indiscriminate sulle tombe e ci furono forti scontri nel cimitero del paese di Armisi davanti alla tomba di famiglia. I servizi d’ordine dei sindacati, coadiuvati dagli esperti del PACSOK, giunto in delegazione ufficiale per portare la solidarietà del popolo greco, anch’esso martoriato dalla nuclearizzazione sanitaria, fece comunque un buon lavoro salvando dalla furia devastatrice molti capannoni e molti negozi di artigianato locale. Già fin dalle prime ore della mattinata You tube riportava decine di clips relative ad episodi della manifestazione e molti di essi vennero sequestrati dal ministero degli Interni per studiare a scopo repressivo i volti dei manifestanti violenti. Nell’ operare tali sequestri il Governo si avvaleva delle norme stabilite dall’ International Standards Cleaning Network, in forza delle quali cliccando sul link sequestrato anzichè immagini postate appariva un messaggio Pubblicità Progresso plurilingue recante spot della campagna Rete Pulita. Il messaggio indicava poi i relativi estremi di legge e l’elenco delle sanzioni previste in caso di trasgressione. Ma la novità era i Cerchio Rosso.

Il cerchio rosso: nuova frontiera della partecipazione, digitale, alla delazione. Il servizio d’ordine del sindacato, i proprietari di negozi associati alla FEDERVETRINE  e gli impiegati comunali vennero dotati di telefonini che mandavano automaticamente al server del Ministero dell’Interno ogni foto scattata. Il dispositivo fotografico di tali apparecchi era inoltre dotato della possibilità di cerchiare in rosso il volto desiderato. Una foto inviata senza cerchio rosso valeva 10 euro, con cerchio rosso 25 euro mentre con cerchio rosso indicante flagranza per un volto già noto agli archivi del ministero degli interni poteva arrivare ad un premio di 250 euro. I fondi destinati alla incentivazione della delazione elettronica provenivano dalla lotta antimafie.

Ma nonostante le sofisticate tecniche di prevenzione e repressione della lotta di piazza, la manifestazione antinucleare ebbe successo e dette al mondo un’immagine insicura e negativa della regione altoplanare pedemontana, la quale continuando di questo passo avrebbe pagato con il crollo del settore turistico le intemperanze di una lotta locale tra comuni, questione che, presa per sé stessa, non avrebbe meritato alcuna rilevanza globale. La prova di tale rischio venne dalla decisione del Comitato Internazionale Paralimpico di rinunciare al meeting previsto e spostarlo direttamente in Qatar, a Dubai nei lussuosi locali della famiglia reale.

Fu un colpo durissimo per le comunità locali. E alcuni sindaci, tra i quali addirittura uno al primo mandato, dettero le dimissioni. In pochi giorni il clima cambiò radicalmente raffreddando ogni animosità del popolo. Anche nei confronti dei banchetti biologici no global davanti ai cimiteri le persone comuni iniziarono a mostrare insofferenza. Soltanto alcune frange studentesche inneggiavano ancora al successo della lotta dopo la dichiarazione del direttore generale ASL il quale ammise in un’intervista al Giornale Pedemontano, di grande tiratura, di considerare l’ipotesi di chiusura del reparto Medicina Nucleare. Si diffuse invece un sentimento realistico secondo il quale in fin dei conti ciò che conta è la salute e che ci sia un lavoro per i figli. E una riunione di sindaci ed amministratori seguita da varie interviste giornalistiche locali, sancì la necessità di trovare una quadra alla vertenza. Per farla breve, la Medicina Nucleare restò attiva e l’inceneritore di salme venne realizzato con solerte perizia e opportuno coinvolgimento delle ditte locali.

 

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Rimaneva però il dettaglio tecnico della collocazione delle ceneri radioattive, problema per il quale una apposita commissione interministeriale, creata su sollecitazione del prefetto Cestelli col coinvolgimento del Ministero della Difesa e, ovviamente, dell’Interno, provvide a cercare soluzione.

Si rese noto l’esito del concorso di idee vinto dalla società HAL Gmbh, riconosciuta dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, grazie alla quale la comunità locale disponeva del know how necessario alla progettazione e realizzazione di un bunker sotterraneo che sarebbe stato risolutivo di ogni problema. Una volta realizzato, tale innovativo cenotafio era  in grado di ospitare, in condizioni sicure e solenni, migliaia di ash balls, piccole palle di piombo contenenti ceneri funerarie etichettate, mettendo così in grado la popolazione locale di soddisfare il fabbisogno di allocazione cineraria per vari secoli. Per la sua realizzazione si ricorse al criterio della bodies tax, una semplice tassa di scopo che avrebbe finanziato i costi mentre l’ubicazione venne decisa nella zona della Grande Guerra dove fu possibile sfruttare vecchie gallerie e camminamenti abbandonati ridando ad essi un nuovo senso  alla sacralità del luogo. Il cenotafio monumentale venne inaugurato con una targa intestata alla memoria di Delfo Marsolato.

 

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La vita pacifica delle popolazioni pedemontano-altoplanari riprese il ritmo della propria storica pax laboriosa, e la Regione che sapeva, in tempi di Spending Review di non poter destinare grandi risorse alle economie locali, indicò nel modello Atomi di Dio l’esempio da seguire per curare i malati di cancro e, al tempo stesso, assicurare la pace del riposo eterno ai nostri morti e alle loro ceneri.

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29 agosto 2012 3 29 /08 /agosto /2012 10:14

cartolina PragliaA Praglia il bucranio appare ripetutamente sul portale della sala del refettorio grande, nella abazia. Esso richiama il bue, corrispettivo ammansito del toro selvatico e costituisce un simbolo di servitù pacifica, forza paziente e sicura come il monachesimo che ci parla attraverso le opere rimaste nella storia. Quell’immagine quindi, il cranio del bue all’interno della metopa, ci ha fornito la chiave per godere della visita.

Ci si arriva facilmente in camper da Monteortone; noi ci siamo arrivati ad ora di pranzo di domenica mattina, ovvero l’unico momento della settimana in cui il parcheggio è gratuito. Ma alle 14, durante il riposo postprandiale nell’ampio e poco frequentato parcheggio, siamo stati colti dai parcheggiatori i quali, con quel contegno giovanile tra l’educato e il furbesco caratteristico delle cooperative sociali frequentate da ex - tossicodipendenti, ci hanno chiesto ben quattro Euro e tredici centesimi.

In realtà credo che l’avveduto camperista debba notare la tourist – trap insita in questa situazione. Il parcheggio è inevitabile perché altrimenti si dovrebbe lasciare il mezzo nel centro abitato per arrivare in bicicletta e pertanto tocca sottostare alla regola venale della tariffa oraria. L’idea della bicicletta come complemento si è quindi confermata nelle nostre teste per la prossima visita.  Cosa questa che ci siamo ripromessi di fare nei periodi di apertura al pubblico della favolosa Biblioteca abaziale. Per il momento ci siamo goduti l’occasione di una visita guidata dalle parole di un giovane e colto frate benedettino.

 Praglia deriva dal latino “pratalae” o dall’arcaico “pratiale” e significa “in mezzo al prato”, o “dei prati” che dir si voglia e sorge in un’area valliva tra due colli Euganei di quelli bassi, che si staccano “come satelliti” dal contesto montuoso. Ad est abbiamo infatti il Monteortone, dal quale siamo arrivati, ad Ovest, molto più vicino, il colle delle Are, segnato sulle carte anche col nome di Monte Lonzina.  E’ quindi in una posizione felice e pacifica. Così devono averlo infatti concepito i frati cluniacensi nell’undicesimo secolo, quando iniziarono la costruzione e così deve averlo visto anche il Barbarossa che provvide poi, un centinaio d’anni più tardi, a confermare loro la legittima proprietà, anche dei terreni circostanti “in qualunque modo e con qualunque diritto fossero stati acquisiti”.

Col passare dei secoli il monastero si è sviluppato come un complesso architettonico di stili diversi, composto da più edifici variamente integrati fra loro. Un solo punto di vista, dall’interno permetterebbe al turista di cogliere con un solo scatto la pluralità di stili ed epoche condensate in quel complesso di edifici, ed è appunto l’angolo sud – ovest del chiostro pensile al cospetto del bucranio, sotto il portale del Refettorio Monumentale. Ma il divieto di introdurre apparecchi fotografici e cineprese impedisce di togliersi questa soddisfazione e per portarsi a casa quell’ immagine tocca acquistare la cartolina illustrata all’uscita.

Dopo le parole iniziali dedicate alla storia del monastero, la visita si svolge rapida tra il chiostro rustico e il chiostro botanico salendo scalinate a pendenza rinascimentale che conducono alla sala capitolare e al chiostro pensile per approdare finalmente al refettorio monumentale. La specificazione è necessaria per distinguerlo dal refettorio quotidiano che si trova da un’altra parte e non ha la solennità né le particolarità artistiche di questo.

In questa sala ampia e solenne si sono tenute e si tengono le riunioni degli abati priori di vari monasteri e, forse proprio per questo, il tema del potere e delle sue lusinghe appare citato ripetutamente nelle decorazioni lignee degli scranni. In queste decorazioni, che stanno in cima allo stallo ove siede il monaco per mangiare, abili artigiani decoratori dei secoli diciassettesimo e diciottesimo, hanno riposto, su commissione monacale, vari stemmi, imprese e cifre, creando un gioco di significati che stuzzica lo spirito e che forse va oltre le intenzioni degli stessi committenti… Ogni commensale si ritrova sotto un motto creando, se così lo si vuol intendere, un’ allusione alla integrità della sua persona.

 Il codice simbolico è abbastanza intuitivo ed è tipico del gusto tardobarocco. IUSTITIA e FORTITUDO fanno da contrappunto simbolico al PESCE  e al ROSETO utilizzando un suggestivo linguaggio fatto di scene allegoriche e motti latini. La giustizia infatti viene rappresentata dal giudizio di Salomone; la Forza da Sansone che spezza le colonne del Tempio, mentre il pesce è rappresentato fuor d’acqua, sopra un fregio che reca un cartiglio con la scritta "“in sicco moritur" come a dirci che “tra le aridità del digiuno e della penitenza muore il vizio”, il quale ha vita solo nel piacere e nelle delizie di chi può permettersele. Il Roseto è rappresentato con i boccioli racchiusi perché, come ci dice la chiave riposta anche in questo caso nel cartiglio, “sub sole patebunt” cioè le rose sbocceranno al sole. Su questo significato manifesto si può poi sviluppare la metafora fino a concludere che allo stesso modo delle rose “i segreti intendimenti del nostro cuore si sveleranno solo alla chiarissima luce del giudizio…” ecc. ecc. Il fratino si sbizzarrisce nella scelta degli esempi , ma non può ovviamente citarli tutti e così rinvia all’acquisto del libretto che li riassume e che si trova in vendita nello shop dell’uscita.

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 Dopo la descrizione della sala sulla cui parete ovest campeggia tra l’altro l’affresco della Crocifissione eseguito da  Bartolomeo Montagna nel 1523, il gruppo si avvia seguendo il saio della guida, ma mentre sfuma la in questa prospettiva solenne, alla mia distorta mente dietrologa non sfugge il richiamo di un fregio, uno perfettamente mimetizzato tra gli altri, ma che cattura il mio sguardo come un potente magnete: INHAERENDO PUTRESCAM. L’attrazione è potente perbacco… come resistere alla tentazione di dedicarlo a chi so io, in fin dei conti non lo saprà mai nessuno. E così retrocedo per avvicinarmi e contemplarlo nel dettaglio: una vite tronfia di sé sostiene a malapena i tralci piegati fin che l’uva tocca terra. Marcirà per l’attaccamento, dice il fregio latino. Ecco si, è perfetto; non può essere che per chi dico io… anche perché dall’altra parte, in perfetta giustapposizione, si trova l’albero colpito dalla scure: NON UNO CONCIDIT ICTU già, è vero, non cade con un colpo solo, occorre perseverare per ottenere lo scopo. Così a completamento di quella piccola, ma emozionante illuminazione mentre, solo, nell’enorme salone rischio di farmela addosso, la mia mente eccitata coglie il messaggio finale: COMPLETUR CURSU.  Un ostensorio sorretto da fregi lignei fluttuanti in ogni direzione mostra dentro di sé una luna in prima fase e il significato del cartiglio mi appare nitido: “si compirà a corso finito”, occorre attendere sino alla fine del ciclo per vederlo compiuto… la perseveranza nella virtù conduce alla gloria. Ecco, questo dev’essere per me… Carpe Diem!   

Avvertendo il ritardo dal resto del gruppo, riparto spedito e passando sotto al bucranio avverto un senso di incoraggiamento: “resta nel gruppo, segui la guida” e mi ritrovo nell’Interno Chiesa, ove si svolge l’ultima tappa della visita.

 La basilica è stata eretta nel sedicesimo secolo e dimostra la propria epoca di costruzione con la facciata semplice, ma dalle linee inequivocabilmente barocche. E’ una costruzione voluminosa, che vuole essere solenne, ma è incompleta e ne soffrono le proporzioni Abside/Navata. “Il solo transetto della basilica di SANTA GIUSTINA a Padova è più grande di questa navata”, spiega la giovane guida e con le sue parole si nota la sproporzione, l’inutile spazio antistante la facciata, lo spazio inutilizzato di una spianata enorme ma vuota. “Saranno mancati i soldi per finirla”  è il commento ironico della guida mentre ci riconduce al punto di partenza. Qui noi riceviamo il suo umile, ma signorile saluto e lui riceve le mance dei turisti i quali, chi si chi no, non avendo pagato biglietto di entrata, contribuiscono in questo modo alla manutenzione dell’edificio a beneficio dei posteri.   

**

Ritornando al camper rifletto su come, oltre ai pregi architettonici parecchie altre stimolazioni vengono offerte dalla visita. Ad esempio.

 La sala capitolare mostra sul pavimento le pietre tombali che portano all’ossario sottostante, dove riposano i resti dei monaci di tutte le epoche; dev’essere un ossario enorme se si considera che la dimensione media della comunità è stata di 35 ospiti per una trentina di generazioni. Inoltre una parte dev’essere adibita a cimitero, con le salme intere delle ultime generazioni, per cui a parte i problemi di spazio, se si pensa che tra le due ultime guerre la comunità era arrivata a più di ottanta ospiti, dev’esserci qualche leggera forma di aerazione, per evitare inopportune mummificazioni dei cadaveri. Insomma nel chiostro più basso, sotto quello pensile, l’aria dei vivi dev’essere promiscua con l’aria dei morti; e a questo proposito è suggestivo immaginare il nostro fratino dopo l’ora nona camminare tra le arcate ogivali in compagnia dello spirito di qualche inquieto frate medievale, mentre assieme meditano sul mistero della Resurrezione aiutati dai versetti di Paolo ai Corinzi “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti”(1°Cor.XV-20) B Maddy Praglia

 L’affresco del Montagna non è straordinario, anche se ha il suo fascino. Ai piedi della croce sta, sulla destra di chi guarda un classico San Giovanni con capelli e clamide rossi, ma senza raggiungere il netto rosso cremisi delle tele del Giambellino; il nostro Giovanni inoltre è tozzo ed impalato da un alberello che sembra gli sbuchi dallo stomaco. La Maddalena abbraccia il pedicroce senza alcuna convinzione come se dovesse solo chinarsi per lasciarci contemplare lo sfondo, quello sì accattivante, con le nostre montagne dell’arco prealpino. In questo sfondo, come in tutti gli sfondi montani dell’epoca manierista, la skyline delle vette non è realistica, ma il colore e l’aspetto della roccia richiama chiaramente la dolomia e qui, sopra i capelli della Maddalena, potrebbe esserci proprio il Sengio Alto, anche se con un Baffelan troppo spiccato e con un Passo delle Gane troppo ampio. La Maddalena è un’icona che non tradisce, e così anche questa, così tiepida e oserei dire palesemente frigida, ha riservato  delle sorprese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Per finire non posso tralasciare la provocazione contenuta nello stemma, quello che il catalogo dei simboli di E. Lehner definisce: “The Seven Pointed  Mystic Star”. Lo stemma del monastero è composto da una stella a sette punte coronata dalle sette lettere che ne compongono il nome: P, R, A, G, L, I, A  che sono l’acrostico di antichi simboli della patristica con qualche incursione gnostica, ma potrebbero anche essere l’anagramma di “PAGALI GR.”  che è appunto quello che avrei detto a Graziana quando siamo partiti.

 

 

 

Così pagato a tariffa piena il ragazzo della cooperativa parcheggiatori sarà certamente rimasto soddisfatto, tanto da abbonarci gli spiccioli con un tocco di stile che gli ha permesso di risolvere il problema del resto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ABC Metopa

 

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28 agosto 2011 7 28 /08 /agosto /2011 00:56

mediterranean-sea-map-israel-lebanon-jordan-500x282.jpgLa notizia risollevò il mondo e le trivelle petrolifere ripresero il penetrante moto carsico dell’era globale. Non fu prospera l’alba del dittatore, sorpresa dalla violenza delle moltitudini, e il liquame nerastro ricoprì, come il velo della morte, ogni giovane speranza di civiltà. L’emittente dell’Alba Dorata annunciò il rimbalzo del prezzo dell’oro e gli indici di borsa si rinvigorirono alimentandosi delle dichiarazioni svenanti del segretario della MANTO, unite a quelle del presidente di turno dell’ OMUS le quali sopraggiunsero accavallate al time-break delle borse orientali. Ottimo tempismo, osservarono i commentatori, indice delle nuove tendenze evolutive dello scenario globale. L’euforia colse soprattutto i sogni francesi, che tanto avevano trepidato, ma portò anche il soffio del sollievo sui tavoli del numero quattordici di Fighting Street, nella City, ove da pochi giorni erano state ripulite le tracce ematiche del ministro. A Langley invece il capo dell’apposito ufficio stampa sorrise cinicamente rileggendo la bozza di comunicato da suggerire allo staff della Casa Bianca e, apportata l’ultima modifica, schiacciò il tasto “ENTER” accompagnandosi con un gesto scaramantico nella zona inguinale. Neanche quella mail, of course, sfuggì all’ IFCS (Intercepting Fighting Communication System, detto semplicemente Cluster Brother tra gli addetti ai lavori) e venne letto con apprensione dai tecnici del mahafna center di Yafo Dysra 1015, Tel Aviv. Costoro, intuendone l’importanza, attesero la conferenza stampa del presidente degli Stati Uniti Emisferici per confrontare i contenuti dello statement con quelli della bozza stessa. E questa vecchia, ma ancora molto efficace, tecnica di analisi del contenuto permise loro di individuare le discrasie e dedurne, con estrema soddisfazione, le occulte motivazioni.

 

*

 

Nelle ore tardo mattutine i principali network mandarono ripetutamente il video shock che conteneva le immagini con le tende beduine incendiate sotto un cielo notturno costellato di elicotteri. Si vedevano le truppe speciali berbere che maltrattavano le madri con i bambini in braccio mentre dal sovrastante elicottero venivano monitorate le loro dinamiche cerebrali e quando le frequenze raggiungevano la soglia rossa si vedeva partire il raggio di fusione. A questo punto non sempre c’era la telecamera sul campo che catturava le immagini del berbero morente, ma quando questo avveniva lo spettacolo era elettrizzante e veniva accompagnato dal ritornello hard rock della cantante globale Princess Pyaga  fino alla interruzione pubblicitaria.

 

Alcuni commentatori dell’Emittente Araba dissero che si trattava degli stessi elicotteri (o comunque dello stesso modello) che avevano mandato in fusione ossea i dimostranti armati di Tottenham dieci giorni prima. Il loro temibile “Hook eye”, ovvero il dispositivo elettronico che permetteva di individuare le frequenze cerebrali dei sovversivi, era costantemente on-line col sito MANTOfacebook dove seguendo in tempo reale i sovversivi muoversi per le vie metropolitane il pubblico poteva votare via SMS quale colpire. Dopo ogni fusione un analizzatore integrale del DNA individuava l’identità del sovversivo carbonizzato e riproduceva uno scenario rendering di ciò che il soggetto avrebbe potuto fare se lasciato in vita: stupro, violenza di gruppo, sfondamento di vetrina con rapina, uccisione di poliziotto o semplice rapina che fosse. Le statistiche dimostravano che il pubblico (target mediano) sceglieva preferibilmente l’uccisione di poliziotto perché alzava la tensione di piazza, elettrizzando la trasmissione televisiva. L’escalation però aveva un limite perché quanto più aumentava l’audience tanto più frequenti erano le inserzioni pubblicitarie e la conseguente, parziale, demotivazione. Da qui la tendenza del feedback sanguinario proveniente dal pubblico a stabilizzarsi su un livello di poliziotti  uccisi che era ritenuto “accettabile”, secondo la valutazione degli analisti di marketing pubblicitario. Un po’ più complesso invece il problema relativo all’atteggiamento della fascia di audience riconducibile agli adolescenti e alle persone molto anziane; qui infatti predominava la tendenza a risparmiare il sovversivo intenzionato allo stupro. Ciò era dovuto, secondo le analisi degli psicologi, al desiderio che lo stupro avvenisse in diretta. In quest’ultimo periodo, durante il quale le dirette sui riots erano aumentate di molto, l’interesse per gli stupri in diretta era in crescita e gli operatori non sapevano ancora come sfruttare il trend. La cosa inoltre non era del tutto gradita dagli esperti del ministero degli interni per via delle grane che ciò procurava nelle relazioni con le varie chiese, in particolare la cattolica e la metodista, ma anche qualche imam cominciava a tuonare nelle moschee. Sul lato opposto alcune associazioni di stampo laicista ad approccio edonistico avevano dato corso ad una campagna di petizioni web che richiedeva il diritto di download dei filmati in nome della trasparenza dell’informazione. Inoltre la trasmissione della BBC “war and riots at home” era la più seguita. Insomma si profilava all’orizzonte una fase di scontro politico sull’uso pubblico dei filmati “recording propeller”, ma per il momento le mayor pubblicitarie non erano ancora interessate ad un uso promozionale di tali scene.

 

La polemica durò sulle headlines per trentasei ore, ma dopo fu surclassata da un nuovo scandalo. Il ministro degli interni venne accusato di conflitto di interessi sui rotocalchi di opposizione. Il capo del suo staff era infatti risultato membro del Consiglio di Amministrazione della società di capitali FSB security network.

I termini del problema erano in sintesi questi: durante il secondo giorno di tumulti l’informazione televisiva delle cinque pomeridiane lanciò la notizia relativa ad una presunta informativa del ministero degli interni nella quale si dichiarava esistente il pericolo di attentato dinamitardo islamico nella metropolitana. La notizia puzzava di balla strumentale perché era evidente a tutti che durante i riots la via di scampo regina degli insurgers era la METRO che li proteggeva dal monitoraggio via elicottero. Per questo le agenzie che avevano fornito il sistema di telecamere security della metropolitana londinese sentendosi danneggiate insorsero immediatamente e la notizia venne denunciata come un bluff repressivo già nei successivi telegiornali delle sette di sera. Il risultato fu che nei notiziari della notte il ministero degli interni smentì l’allarme metro. Libertà d’azione, agenzia di rappresentanza degli interessi del consorzio FSB, (Freedom Security Business) una sorta di Confindustria delle imprese di sicurezza inglesi, ringraziò il ministro nell’edizione notturna e rese pubblici i risultati di uno studio sull’efficienza delle telecamere metro. Il titolo FSB ebbe un’impennata di borsa nel giorno successivo e da qui lo scandalo, alimentato probabilmente dai rumors diffusi dalle agenzie concorrenti.

 

**

 

In questo clima avvenne l’assalto al civico quattordici di Fighting Street, nella City. I fatti vennero ricostruiti fedelmente nelle settimane seguenti grazie all’inchiesta svolta per conto della Società generale di Assicurazioni contro i danni da crisi di governo. Che vennero così ricostruiti: nel momento di più alta intensità del big riot, che avvenne lo ricordiamo, nel terzo giorno dei disordini verso le sei pomeridiane, un manipolo di insurgers incappucciati si staccò dal gruppone che stava sfondando le vetrine d’ingresso dell’ipermercato PHAMMY il quale a sua volta si trova, come è noto, subito di fronte all’uscita della metro, e si diresse con estrema rapidità nella residenza del ministro. Il personale di sorveglianza della residenza ministeriale si trovava in quel frangente in fase di stand by perché, stando a quanto emerso dall’inchiesta, in caso di riot il comando operativo passa automaticamente al comitato Urban security, cioè l’autorità cittadina, la quale risponde a sua volta direttamente al ministero dell’interno che controlla i corpi speciali in elicottero. Si era pertanto entrati in quello che gli esperti definiscono un caratteristico shifting-loop, ovvero quel paradosso operativo per il quale, in questo caso, lo staff del ministro degli interni non poteva più comandare direttamente i propri subordinati addetti alla sicurezza della propria abitazione e famiglia, ma per farlo doveva passare attraverso, appunto, l’Urban security. Il risultato fu che, col personale immobile, in dodici secondi vennero esplose quattro bombe accecanti e in meno di un minuto gli insurgers avevano raggiunto i locali upsters e stringevano il collo delle due figlie del ministro, mentre un altro filmava col telefonino la moglie discinta che usciva dal bagno con la sigaretta in bocca, del tutto ignara di quanto stava accadendo. Già alle diciannove, col filmato disponibile su You Tube, si dava notizia delle dimissioni del ministro, ma il peggio venne alle undici, quando, nel compianto generale, le agenzie dovettero lanciare la notizia del suo suicidio.

 

***

 

Qualche decina di minuti prima era scattata per la prima volta nella storia la procedura UGCHAT.CC, (urgent global challenge threat conference call) che era stata riservatamente messa a punto nell’ultimo G20 per fronteggiare un eventuale minaccia extraterrestre – con il dissenso del Brasile – e che prevedeva la video conferenza di consultazione immediata dei capi di stato in caso di grave crisi globale. Sui tablet dei vari capi di stato, che si sintonizzarono quasi tutti in pochi minuti pur trovandosi nelle situazioni più disparate, apparve subito il volto provato del primo ministro britannico. Costui notoriamente non aveva le palle di un Tony Blair e men che meno quelle di Margaret Thatcher, ma pur mostrandosi debole e provato ebbe la forza di accusare la lega antidemocratica del Libero Nordafrica di organizzare gli immigrati e finanziare i riots al fine di destabilizzare il governo britannico e rinegoziare i piani di fornitura del gas ai paesi del fianco SUD: Grecia, Spagna e Italia. I capi di stato convenirono che, qualora fosse stata debitamente provata, tale accusa avrebbe meritato un immediato intervento regolatore e a tale scopo – con il dissenso del Brasile – venne decisa la convocazione urgente del consiglio di sicurezza OMUS al fine di formalizzare un mandato per la democratizzazione urgente del governo della Berberia Libera. I leaders di Grecia, Spagna e Italia  raccomandarono cautela lamentando i pericoli di ritorsione immigratoria, ma si limitarono ad auspicare una soluzione rapida della crisi.

 

Non fu prospera l’alba del dittatore, oscurata dagli sciami di elicotteri, e la notizia risollevò il mondo. Il presidente degli Stati Uniti Emisferici intervenne verso la tarda mattinata con un discorso che commosse tutti passando alla storia come lo “statement dei quattro dollari l’oncia”. La Cina annunciò una nuova politica di interesse verso il debito sovrano dell’area euro e Israele, soddisfatta per l’agognato smobilizzo delle riserve auree stipate sotto il massiccio dell’Atlante, annunciò la ripresa delle trattative di pace con l’Autorità palestinese.

 

Il penetrante moto delle trivelle riprese, e il suo carsico pulsare indicò al mondo il nuovo ritmo dell’era globale.

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12 luglio 2011 2 12 /07 /luglio /2011 22:46

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Con rinnovato moto d’animo il maestro del coro profuse un’intensa atmosfera di solennità al rito di intonazione e poi, nel perfetto silenzio del pubblico, dette l’attacco. Fu l’inizio della più profonda emozione musicale della sua carriera. E fu anche la fine della sua vita terrena. In quel canto infatti la materia sonora si fece soffio divino ed egli stesso divenne pura sostanza spirituale.

 

Il coro amava soprattutto le sacre polifonie tardo rinascimentali, senza peraltro disdegnare le incursioni della musica contemporanea, e si era formato via via nel corso degli anni per lenta selezione di voci e cantori sempre più appassionati, umili e sublimi curando la fusione, l’amicizia e l’armonia con mesta e solare dedizione. Il nome Aetherea Vocis era stato scelto nella piena consapevolezza del carattere assolutamente “cosmico”, nel senso di anti-caotico, del proprio afflato canoro e negli anni il maestro e il suo coro erano divenuti unità imprescindibile. Davanti ad un nuovo brano, mottetto, strambotto o villancico che fosse, nessun cantore mai avrebbe osato l’abbrivio senza il manifesto segno del maestro. Ogni semplice prova era un’esperienza di mistico convivio e talvolta ciò che avveniva dentro, nel profondo intimo di ciascun cantore, aveva del miracoloso perché nasceva, come un unico respiro, dall’ascolto di tutto l’insieme canoro.

Dal canto suo, il colto maestro sapeva bene di avere spiccata qualità musicale e quante volte, sempre con un pizzico di maliziosa consapevolezza, aveva alzato l’intonazione di un buon semitono per dare brillantezza e tensione al canto. Del resto questa era la sua peculiarità: direttore di coro di provata fama, esperienza e passione qual era, egli sapeva motivare lo spasmo del diaframma come nessun altro e sempre otteneva, - come ben vedremo - soprattutto nel settore soprano dell’arco corale, attacchi di sorprendente effetto timbrico. Alcuni maligni componenti della compagnia coristica, o forse semplicemente burloni, amavano attribuire tale abilità al suo malcelato richiamo istintivo verso il tenue sobbalzo del seno di una specifica cantante, ma si trattava più che altro di una scherzosa diceria senza storia. Sta di fatto comunque che, con particolare singolarità, ogni volta che l’attacco riusciva brillante lo sguardo concentrato del maestro volteggiava proditoriamente in quel punto, e solo in quel punto, per rimanervi quella magica frazione di secondo che gli offriva giusto il tempo di indicare l’attacco della seconda voce e procedere poi con eleganza nello sviluppo fugace del brano.

Nel mondo reale della coralità non basta la cultura. Per stare al passo è più utile un gospel, oltreché gli immancabili canti della tradizione montanara, piuttosto che il genere amato da Aetherea Vocis, pertanto nella programmazione degli eventi occorrevano mediazioni che il maestro non sapeva fare e ciò aveva fatto emergere il ruolo di alcune personalità più pragmatiche presenti tra i coristi. In particolare una soprano, Salima Favrit, figlia di immigrati egiziani della minoranza cristiano copta, di seconda generazione, nata in Italia alla fine degli anni settanta. Costei era stata eletta presidente per le sue caratteristiche fondamentali ovvero capacità organizzative, bon ton ed istruzione, fuse in uno charme originale che poco lasciava sperare ad ogni potenziale concorrente. A tali doti ella sapeva inoltre unire anche una voce alta, limpida e pura che lei stessa usava con modo ed estro sapienti. Il suo cognome era stato italianizzato come Favaretto e da qui, per effetto di una amichevole, e forse un tantino irrispettosa abbreviazione, derivava l’abitudine diffusa tra i coristi di chiamarla semplicemente Salima Fava. Dal canto suo anche il maestro, che si chiamava Enrico Maria Ravazzoni, veniva chiamato semplicemente Rava per brevità confidenziale, dando luogo all’allusiva espressione secondo la quale “il Rava e la Fava” comandavano il coro.

Ad alimentare il clima di amicizia e cordialità del coro con questa ed altre battute era in particolare un gruppetto di amici burloni, equamente distribuiti tra bassi e tenori, i quali traevano ispirazione dai più svariati episodi di vita corale nonché da nomignoli e caratteristiche dei vari personaggi. La Fava stessa era una fonte di ispirazione: quante volte a lei venivano dedicate mirabili filastrocche vernacolari che poi rimanevano più o meno segrete, sussurrate di bocca in bocca tra i beffardi compositori. Infine Salima la Fava aveva tra le sue preminenti caratteristiche, oltre, come vedremo, alla perfetta tornitura del seno gentile, uno straordinario sguardo magnetico che proiettava sul maestro, e peraltro non solo su di lui, un sentimento maternale ed ipnotico tale da catturare l’attenzione dell’intero coro fin dal suo primo apparire nella sala prove dell’auditorium. E quando appariva la sera del concerto, una longilinea e statuaria figura si stagliava mirabile nel tralucere della tunica velata. Insomma era la Donna eccelsa, concepita e voluta dalle più alte sfere celesti per indicare la perfezione al genere umano. Ma, haimè, a tale e tanta perfezione mancava però il dettaglio trionfale: all’attacco di ogni brano non v’era sobbalzo alcuno.  

 

Di tutto ciò, comprese le allusive battute su di lei e il maestro, lei era consapevole. E non si dava pace di esser vittima di un  paradosso che le mortificava l’ego: come era possibile che un corpo perfetto, scolpito nel pilates, con un seno di pitagoriche proporzioni controbilanciato da glutei di ginnica convessità, non sapesse generare quel magico fremito sussultorio che catturava l’anima dell’amato maestro? Eppure, haimè era proprio così…

Ah! maledette ore sulla pedana vibrante! Ah! Maledette diete personalizzate! Alla fine gli occhi del maestro volteggiavano lampeggianti sempre sull’altro seno, quello prosperoso e fin troppo prospiciente della sua vicina di voce, la soprano Stella Maria Gabrielli. Una signora più stagionata circa la quale, con tutto il rispetto amicale del caso, la Fava non poteva fare a meno di notare che costei si caratterizzava per una massa corporea ad limina extremitatis e si proponeva con una voce che era certo alta e potente, ma non flessuosa e penetrante come la sua.

 Che fare? S’era domandata più volte. Avrebbe tentato di tutto. All’inizio non capiva, aveva cercato di attribuire le cause ad aspetti canori o a differenti tecniche di vocalità. Aveva provato diversificati tipi di appoggio sul diaframma, aveva adottato procedimenti respiratori che rilassassero maggiormente le spalle nella speranza di lasciar più morbido l’apparato mammellare; aveva cercato, esercitandosi a casa, spinte sussultorie che premessero, seppur delicatamente, i muscoli pettorali al momento dell’attacco, ma sempre senza ottenere la minima inversione di tendenza nello sguardo del maestro. Alla fine, non senza aver consultato appositi libri e interrogato confidenziali personal trainers, maturò la convinzione che si trattava di una differenza… come dire, fisiologico razziale. Si fece strada nella sua mente infatti la consapevolezza che il seno della Gabrielli rispondeva al tipo europeo mediterraneo, come nei film neorealistici, mentre il suo rispondeva al tipo afro, camitico, come in Lola Darling di Spike lee. Inoltre le differenze tra loro andavano ricondotte a fattori non di volume ma di tumor mamilla cuspidis.  Cioè, in pratica, senza indulgere nel dettaglio sconveniente, i due tipi di capezzolo erano strutturalmente differenti e davano luogo a risposte che sotto il profilo morfologico erano diverse anche a fronte delle medesime sollecitazioni motorie. Come dire che anche ammettendo che Salima fosse mai riuscita ad ottenere lo stesso moto sussultorio nel seno e nello stesso momento della Gabrielli, ciò che realmente attirava lo sguardo del maestro sarebbe avvenuto solamente nel seno di quest’ultima. E tutto ciò nonostante si fosse verificata la medesima impostazione della voce, il medesimo appoggio sul diaframma e la medesima spinta toracica.

 

Accettare questa spiegazione fu per lei drammatico. Dovette scartare anche l’idea di una chirurgia plastica perché, secondo una rivista da lei consultata, lo stesso problema era stato in tal modo affrontato dalla nordamericana cantante rock, Tina Turner anni addietro, ottenendone si un effimero profilo estetico, ma pagando un alto prezzo in termini, ancorché economici, di sensibilità e morbidezza. Cioè proprio ciò che a lei serviva. Che fare quindi? Rinunciare a coltivare il desiderio per il maestro? No, avrebbe dovuto abbandonare il coro. Si sforzò di ignorare il problema, ma si rese conto che ciò sminuiva la sua tensione canora. In breve si rese conto che ne aveva fatta una vera e propria ossessione.

 

 *

 

Alla ventiseiesima edizione del Congresso Mondiale di Canto Corale partecipò anche il coro Aetherea Vocis. Grazie all’interessamento della Fava stessa, la quale seguì con sapiente dedizione l’intero iter di iscrizione, comunicazione del programma di sala, prenotazione dell’albergo ecc., l’organizzazione fu perfetta. Il viaggio in pullman fu allietato dall’ascolto delle migliori registrazioni dei concerti, ascolti di volta in volta commentati criticamente dal maestro e spesso applauditi dai coristi stessi. Uno scioccante scenario alpino accolse il festoso consesso in un sogno d’amicizia e assoluta musicalità. La manifestazione canora, finanziata direttamente dalla massima Autorità Musicale della Unione Europea, aveva un carattere esclusivo ed era articolata su più giornate con cicli di concerti di differente approccio tematico. Così la sezione dedicata alla coralità di montagna non impegnò il coro in quanto tale e una parte dei coristi poté dedicarsi a varia attività alternativa al canto: chi allo shopping, chi al turismo museale, mentre la parte non riluttante dei coristi poté dedicare la giornata all’ascolto di tale genere, compresa qualche esilarante esibizione riservata agli escursionisti, nonché ai cantori d’alta quota. Tra questi la nostra Fava ebbe un moto di emozione quando le venne chiesto di iscrivere anche la Gabrielli all’escursione sul ghiacciaio della montagna piatta (sic). Tenne però per sé tale intima soddisfazione.

Il destino però ebbe a manifestare la sua iperbole tragica nel terzo giorno della rassegna, quando, secondo programma, ebbe luogo l’incontro con la coralità israeliana, circostanza in previsione della quale era stato preparato il canto tradizionale ebraico Hava Nagila. Si trattava di eseguirlo non esattamente durante il concerto sul palco, ma durante i festeggiamenti amichevoli che intercorrevano tra i cori alla fine, durante i rinfreschi. La Gabrielli non avrebbe avuto un particolare ruolo in tale canto se non fosse che il giorno prima la giovane ragazza del coro che era stata inizialmente incaricata di danzare durante l’esecuzione, si fece male alla caviglia durante il ritorno dalla montagna piatta. Preso alle strette il maestro chiese alla Gabrielli di accompagnare con alcune mosse l’esecuzione e costei accettò di buon grado. Scenicamente fu la scelta giusta, ma nel cuore di Salima venne evocata la fine. L’audace scollatura adottata da Stella Maria per la serata ebbe notevole successo tra gli israeliani e portò in alto i toni. Al terzo bis il maestro stesso, esterrefatto per l’esaltante successo, al crescendo di uru akim belev sameah tralasciò platealmente la direzione inginocchiandosi e ritmando il battimano davanti al corpo della Stella danzatrice. Salima interpretò questo gesto come il segno della seduzione e lesse in quel battimano l’applauso al seno della sua rivale in amore. Pensieri di morte le avvolsero il cuore e la sua mente calcolatrice fu invasa di desiderio letale.

 

**

HaGiv’ah Belen Cruzah era originario di Haifa, città del nord di Israele affacciata sul mediterraneo. La sua famiglia era composta da ebrei sefarditi ed era cresciuto all’ombra del noto Stella Maris Monastery. Egli aveva potuto studiare per intercessione di strutture cristiane occidentali insediate presso il quartiere della ex colonia germanica e crescendo si era via via avvicinato ai circoli radicali della ultra sinistra israeliana. Alla morte per assassinio di Yitzak Rabin aveva fatto intimo giuramento di vendetta e nel successivo decennio aveva sviluppato un intenso, quanto segreto, training di affiliazione terroristica. Si trovava nelle alpi austriache in quanto componente del coro Open Voices from Israel, nel quale cantava con ruolo tenorile, ma in realtà partecipava clandestinamente ad una missione suicida. Il suo compito, per il quale era stato inserito sotto copertura da oltre un anno, era quello di seguire, spiare ed infine eliminare, un altro componente del coro, anch’egli esponente clandestino, ma del campo avverso. Oltre alle lingue arabo e inglese egli sapeva esprimersi in tedesco e aveva studiato latino. Ma ad attrarre la Fava in quella notte fu soprattutto un’altra caratteristica del giovane: il tratto nordafricano. Egli colpì la nostra soprano fin dal primo approccio, anche in senso fisico perché la urtò involontariamente mentre lei, incupita, si destreggiava tra un piatto di tramezzini e pasticci di baba ganush. Si presentarono come Belen e Salima, ma lui udendo il nome la guardò intensamente e la corresse: “Salimah”. Lei ne rimase profondamente turbata perché sentì per la prima volta riaffiorare, evocata da quella semplice correzione di accento e pronuncia, la vera natura delle sue origini. Nel volgere di una quindicina di minuti i due si trovavano all’esterno dell’edificio che ospitava il rinfresco e, nello scioccante scenario dell’Alpengluhen, ebbero la notte di Ehrengard proprio come solo Karen Blixen la seppe narrare nel suo intenso romanzo d’amore e seduzione.

 

Il giorno successivo assieme all’alba giunse la domenica dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Il culto locale era rivolto da secoli a questi ebrei che furono primi martiri del cristianesimo e veniva celebrato con processioni in costume caratterizzate dallo sfilare di ricche portantine con statue lignee. In quell’occasione il corpo degli Schutzen tirolesi sfilava armato dei fucili Mauser k98 caricati a salve e al di fuori delle chiese si diffondeva il canto Ein Tiroler wollte jagen. In piena aria di festa dalla cittadina austriaca nella quale si era tenuto l’incontro corale del kulturzentrum i vari cori si spostarono in Italia, raggiungendo con brevi tratti di pullman l’ampio piazzale di una ricca cittadina confinaria ove era prevista la premiazione finale. Durante questo viaggio in pullman arrivò la notizia che il coro aveva vinto il primo premio. Salimah lo annunciò dal microfono del pullman e si diffuse un clima di particolare gaiezza ed euforia. Il gruppetto burlone dei coristi vernacolari aveva uno strano atteggiamento sornione e pronunciava la parola pullman inserendovi una vocale così da trasformarla in “pullaman” o meglio: “pull a man” che, inteso in lingua inglese, significa tirare un uomo, evocando l’allusivo significato di “tirati addosso un uomo…, fatti un uomo”. Inizialmente Salima temette che fosse uno sfottò rivolto a lei a seguito di una malaugurata scoperta della sua avventura notturna, ma poi, esaminando mentalmente, battuta dopo battuta il significato maccheronico dei rozzi versi vernacolari che giravano si accorse che alludevano a un’altra coppia: “Sumens illud…“felix coeli porta”  …“Gabirelis ab ore”… Oh, cazzo!  - le sfuggì – la Gabrielli s’è fatto il maestro!

 

***

Raggiunsero il piazzale della premiazione. Un evento massivo che si aggiungeva alle processioni locali. I volontari del servizio civile che presidiavano i percorsi di assembramento, aiutati con professionale riserbo dagli addetti al servizio di sicurezza, si facevano consegnare pali, cartelli e aste portabandiera prima dell’entrata in piazzale al fine di evitare la circolazione di armi improprie. Anche il coro del maestro Rava giunse all’appuntamento e la bella notizia di essere destinatari del primo premio rese i coristi particolarmente trepidanti. Salimah era raggiante. Indossava ancora il collare di perle marine che  HaGiv’ah  Belen Cruzah le aveva donato a ricordo della notte di passione. Il collare, parzialmente velato dal foulard di seta che le avvolgeva le spalle, era un collier di perle e ninnoli colorati, di varia fattezza e dimensione, che ostentava al centro una argentea stella marina.   Perle marine, collare

Lei sapeva che all’interno di quell’aggeggio era stato riposto un sensore a radiofrequenza in grado di attivarsi captando, in una area ellittica di 25mt di lunghezza per 15mt larghezza, il suono di 440 Hz che viene emesso dal diapason. Una volta attivato, l’apparecchio emetteva un fascio di ultrasuoni che a sua volta innescava un apparecchio dinamitardo sottostante al palco delle autorità. E da quel momento rimanevano solo poche frazioni di secondo prima della soverchiante esplosione. A pochi metri dal palco delle autorità, politici e funzionari europei, nonché illustri organizzatori del Congresso Mondiale di canto Corale, stava HaGiv’ah Belen Cruzah spalla a spalla con l’uomo che doveva eliminare, Hamin Kranz-Bergen, capo clandestino di una organizzazione segreta per l’indipendentismo tirolese.

Quando furono davanti al palco cerimoniale Salimah Favaretto ricevette un messaggino di tono affettuoso al cellulare. Egli, stava scritto nel messaggio, l’avrebbe nuovamente messaggiata durante l’esibizione canora per immortalarla nel pantheon delle più belle donne del web sotto la scritta: “Ave Maris Stella, dei mater alma, felix coeli porta”. E lei rispose che sì, portava ancora quel magico collare e solamente lui avrebbe potuto toglierlo dal suo corpo quando si fossero visti ancora, in un ultimo incontro celeste. Ave o Maria, stella mattutina, madre dell’anima divina, dolce porta del cielo.

 

Lo speaker ufficiale nominò il vincitore e consegnò il relativo attestato al presidente e al direttore del coro, i quali si concessero ai fotografi e strinsero le mani delle autorità tra i vividi applausi della folla.

Infine, pochi muniti dopo, con rinnovato moto d’animo il maestro Rava profuse un’intensa atmosfera di solennità al rito di intonazione e quindi, nel perfetto silenzio del pubblico, dette l’attacco.  

 

 

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2 giugno 2011 4 02 /06 /giugno /2011 23:32

 

la-caduta-del-monolite.jpgMaroc è l’antica pronuncia di Marrakech. Oggi questo termine definisce il Marocco, una nazione dal territorio complicato, magico e suggestivo come i suoi abitanti. Laggiù ci sono metropoli come Casablanca, ma c’è soprattutto Marrakech, dove si annusa il profumo dell’Africa. Non lontano da quelle terre di dune, montagne e donne velate, si ergono i resti di quello che fu il confine meridionale dell’impero romano. Ebbene, quei resti ci raccontano di una civiltà che fu apoteosi del sistema militare. Ma oggi di quell’enorme macchina da guerra, tra quelle pietre vergate in latino rimane solo un silenzio profondo e mistico, un’intima emozione che ci sussurra nell’animo l’estremo consiglio: ubi solitudo, pacem appellant.

 

In lingua araba, che è la lingua ufficiale del Marocco, El Ma viene usato per definire l’acqua, mentre la parola Melha definisce il sale e dona colore alla frase. L’Atai Benaana è il Tè alla menta: acqua infusa, di colore intenso…

…a Marrakech, in Piazza Djemaal el Fnà, c’era ressa, come sempre peraltro, di turisti e soprattutto di ragazzi che taccheggiavano i turisti per ottenere mance o altre forme di gratitudine. Erano giorni buoni perché il re aveva appena annunciato la democratizzazione. Avvolto nel suo turbante Al – Mohal, detto anche Ferin nel suo ambiente, era un grande esempio di flessibilità. Uomo di mente cangiante, personalità complessa e fede incrollabile, ai corsi di sopravvivenza aveva realizzato i massimo punteggio Crawl, il test di attitudine alla lotta per la fede, e per questa ragione era stato scelto come esecutore materiale di quel gesto che in occidente era chiamato attentato terroristico, ma che nella mezzaluna fertile era invece ritenuto, dagli integralisti, una preghiera, un momento di perfetta immolazione, ovvero un atto attraverso il quale il fedele eletto si trasformava immediatamente in sostanza divina.

 

In quell’anno di continui corsi e ricorsi lunari, le bombe avevano varie forme. Per gli esperti non c’era niente di nuovo, si trattava del fenomeno noto come PSL, (Plural Shape Law), fenomeno secondo il quale vi sono le bombe che cadono dall’alto, quelle che ristagnano in superficie, quelle che corrono lungo le creste dorate e quelle che il Signore Iddio ne abbia pietà.

Una di queste ultime fu la vera causa dell’esasperato numero di morti della strage di Marrakech. Evento terribile, caratterizzato da un macabro itinerario di intelligence che, per quanto ispirato a sani principi democratici, ne molesta ancor oggi la memoria.

                                                                                                     

Al-Mohal Ferin decise di porre la sostanza esplosiva nell’antro del catoblepa, intuizione d’alto livello, e sostenne con la preghiera il tempo dell’attesa. Vide il servo versare l’acqua sulle mani di ciascun invitato. Notò che il liquido colava sopralzando una bacinella di rame ed egli sapeva che questo gesto si sarebbe ripetuto più volte prima che arrivasse l’intero agnello arrostito. Sapeva anche che i resti di ciascuna portata, ancora caldi dopo che gli invitati se ne erano serviti, sarebbero stati passati alle donne tra vassoi e casseruole. E dopo che mogli e concubine ne avessero tratto soddisfazione, gli ulteriori resti sarebbero passati alla servitù, maschia prima e femmina dopo, per finire, come l’ordine naturale richiede, a mendicanti e parassiti.

Pensò che quello era l’ordine dei giusti, ma poi notò la donna occidentale cacciare le dita sotto la pelle calda e croccante dell’agnello nudo servito. E pensò che ciò non era nell’ordine dei giusti. La moglie, si fa per dire, dell’ambasciatore straniero occidentale, portava abiti succinti come la poca luce dei suoi occhi e non stava con le dame dell’harem, disdegnandone anzi lo sguardo. Quei commensali, pensò, non avrebbero meritato il pasticcio di fichi e mandarini gelati, né avrebbero onorato la Legge rinfrescandosi con le fettine delicate che si abbandonavano profumanti sul letto di piselli e mandorle. Sarebbe stato quindi solo il Tè alla menta quel giorno, come nei millenni, il momento del giudizio.

 

L’acqua è la grande benedizione dei giusti. Essa è la pace, ma diviene guerra, santa guerra, se usata in errata miscela. L’avrebbe bevuta lungo il cammino dei sette rifugi del massiccio del Toubkal, per inerpicarsi nella sete fin sulle vette dell’Atlante. Ma aveva una missione da compiere e doveva porre il suo liquido misterioso, - che poi tanto misterioso non era perché la commissione d’inchiesta stabilì trattarsi di tri-nitro porene marsico in concentrazione critica, - nelle borracce di pelle impermeabilizzate con cera e pece. E Al Mohal Ferin lo fece.   V-essentia-exaltata.jpg

Appena il liquido toccò la superficie rameosa del vassoio un terribile spruzzo fumigante investì il salone degli ospiti. Non fosse stato per la successiva esplosione i danni a questo punto si sarebbero limitati alla pelle e alle dita dei convenuti, ma invece la seconda ci fu ed ebbe il suono dell’inferno. Erano le micro cariche Q2 “Erpix” collegate ai sensori termici dell’impianto di aria condizionata dell’Hotel Riad Diana. Erano state piazzate dagli inglesi nelle cucine usufruendo dei fondi del Piano “Disposizioni per il rilancio dell’offerta turistica”, un piano co-finanziato dalla famiglia reale. Tali cariche hanno un effetto cumulativo spiraliforme, già noto agli esperti fin dai bombardamenti israeliani di Beirut dell’estate 1982. Ma ciò che non era ancora noto era che la cuspide gaussiana da esse stesse generata può, in condizioni particolari di umidità relativa, superare i duecento metri d’altezza in linea d’aria. E qui entra in gioco la terza esplosione. La versione ufficiale la considerò simultanea, ma oggi sappiamo che non fu così. Essa fu causata da fattori resi noti solo venticinque anni dopo per effetto del declassamento del segreto militare: l’antenna satellitare che si trovava a poche decine di metri, sul tetto del Palais du Setam, ebbe uno shock termico e trasmise al satellite Sirius Ex-Treaming 2 un segnale anomalo - così venne definito dalla commissione d’inchiesta - al server NATO Eucalipt cover Siro 4. Fu tale centro automatico di calcolo ad interpretare erroneamente il segnale attivando il conseguente start-up.

 

In otto minuti la squadriglia Junkers giunse sopra il cielo di Marrakech e scaricò le triadi ermotiche. Erano del tipo a ristagno superficiale e pertanto bloccarono immediatamente le comunicazioni locali e devastarono i sensi. I soccorsi, che nel frattempo erano giunti – tra l’altro con straordinaria velocità, visto che si trattò di soli otto minuti - vennero completamente annientati. Gli ospedali di Avenzoar e Ibn Tofail non furono in grado accogliere feriti e salme straziate per oltre sei ore, mentre le cliniche Elantaqui e Ibn Nafis furono subissate di ragazzini accecati e madri imploranti.

 

Che il Signore Iddio ne abbia pietà. E’ la scritta in arabo e francese che oggi sovrasta l’ingresso dell’elegante ed armonioso minareto della Koutubia, a ricordo della strage. E dalla sua cupola sono stati tolti i tre globi di Quivre dorée dentro ai quali erano stati nascosti i segnalatori di indirizzo che mantengono sintonizzati i sensori orbitali del satellite.

 

Floressentia dosL’unico colpevole individuato è il server della NATO. Smontato e lobotomizzato, ora ha un nuovo nome: Hal 9001 e si trova nel museo internazionale “Global Emphasis” di Sigonella, in Sicilia. Accanto ad esso, qual monito escatologico, è esposta la bobina del film “2001: A Space Odyssey”, di Stanley Kubrik.

 

Pianeta Terra – Giugno 2061

 

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