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17 agosto 2014 7 17 /08 /agosto /2014 11:01
Morte di un uomo felice, di Giorgio Fontana

Dal punto di vista del lettore che entra in libreria la Sellerio oggi è sinonimo di affidabilità. Inoltre ha un proprio stile legato al tipo di carta, ai colori pastello e alle dimensioni dei volumetti. Camilleri, Malvaldi, Jimenez Bartlett e tanti altri autori sono associati ad una idea di qualità che la casa editrice si è guadagnata nel tempo e della quale beneficia emergendo dalla marea non sempre chiara dell’attuale offerta libraria. Anche sul prezzi a volte si ha l’impressione di risparmiare qualche mezzo euro e alla fine tutto questo fornisce anche un clima disteso per la lettura.

Nel caso di questo romanzo del giovane Fontana inoltre avevamo la fascetta indovinata della Tobagi. Per lei il libro è infatti “delicato, tagliente e doloroso” e l’autore è una giovane speranza della generazione post plumbea.

Io però, a dire il vero, ho trovato il racconto un po’ lento e piatto. Il tratto psicologico del protagonista è quello del piccolo borghese lombardo, moderato e buonista, alle prese con un travaglio esistenziale e professionale un po’ noioso e superato. Che cosa motivasse i giovani terroristi e cavallo tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta infatti non è affatto ignoto. E anche il rapporto tra quelle violente e sconsiderate aspirazioni rivoluzionarie e la Resistenza, il mito dei partigiani che in definitiva erano i padri, ovvero gli esponenti di quella generazione che il sessantotto aveva contestato, è altrettanto noto. Fontana se volgiamo aggiunge l’idea che bisogna ancora dare un giudizio. Un giudizio morale prima ancora che sociologico, politico, processuale eccetera. E tra le sue righe si impara che questo è il travaglio della terza generazione, quella sua e della Tobagi appunto, quella che oggi guarda e scrive di quegli anni per tranne un senso, una lezione.
Il protagonista è un magistrato e per lui giudicare è d’obbligo. Come pure capire, istruire un dossier. Ed è quello che fa per duecentosessanta pagine districandosi tra i pregiudizi dei colleghi e i problemi di una famiglia non tano seguita. Questo iter evoca il ricordo dei giudici Galli e Alessandrini, due protagonisti della Milano di cui narra il libro. E a questa ambientazione si aggiunge quella della resistenza milanese, quella clandestina perché antifascista ed antitedesca nella Milano repubblichina. Un’ambientazione i cui ricordi si alternano tra un capitolo e l’altro raccontando la triste, ma positiva ed eroica vicenda paterna. E questa immanente figura del padre partigiano ispira e motiva l’azione del nostro giudice fino a stillare quello che è il più importante giudizio di questo romanzo: l’assoluta incompatibilità tra la violenza dei partigiani e quella dei terroristi plumbei. No, non c’è relazione alcuna, non c’è continuità, non c’è giustificazione per questa così come non c’era alternativa per quella.


Può darsi che sia vero, mi arrendo. Anch’io in quegli anni cercavo un riferimento tra i partigiani e vedevo nella lotta operaia contro il neo fascismo golpista un elemento di continuità tra le due esperienze. Ma questo fu vero negli anni che vanno dal ’69 al ’76. Qui siano nell’80-81, tutta un’altra storia. Qui erano già passati dieci anni da quelle lotte e quei giovani che vivevano armati in clandestinità cercavano in realtà solo una alternativa alla loro pochezza morale. E in questo non c’è un giudizio, ma solo un tagliente e doloroso motivo di angoscia.


Il giudizio invece andrebbe dato su coloro che quei giovani violenti vollero armare e utilizzare. Coloro che pianificarono consapevolmente il terrorismo, alimentando improbabili mitologie rivoluzionarie assolutamente incompatibili con l’assetto politico internazionale dell’epoca. Coloro che agirono da mandanti nascosti e imprendibili di quei giovani illusi e disperati nella loro ingenua e letale pochezza. Ecco, questo è l’elemento che fa la differenza tra la Resistenza e il terrorismo: iI ruolo dei potenti al di sopra dello Stato e delle sue leggi, quelli che il giudice Alessandrini aveva individuato citando e mettendo agli atti il club Bilderberg. Ecco questo è il giudizio che manca in questa storia di Giorgio Fontana come manca nella vera storia italiana.

E questo vuoto penalizza la nostra storia come questa lettura. Una storia e un romanzo però da leggere e da rileggere perché ci danno un insegnamento e una speranza. La speranza in una nuova generazione che vuol capire ed imparare dai nostri errori.





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