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30 ottobre 2017 1 30 /10 /ottobre /2017 21:24

 

 

 

Tra le commemorazioni di Caporetto, nel centenario della disfatta, leggo quella di Filippomaria Pontani. Mi piace molto e prendo appunti.

 

Egli rilancia l‘attualità del libro a suo tempo scritto da Curzio Malaparte, uscito inizialmente nel 1921. Quel libro, nel caratteristico stile di un autore passato alla storia per l’indipendenza di spirito e l’enfasi polemica in favore della verità, nella prima edizione portava il titolo Viva Caporetto. Ma evidentemente aveva un sapore polemico che l’establishment non fu in grado di tollerare e fu sequestrato e ristampato. Esso uscì pertanto con un testo riveduto e rabbonito che portava il titolo del La rivolta dei santi maledetti.

Anche questa versione però non piacque e dopo un paio d’anni con il consolidamento del fascismo esso venne risequestrato. Il punto critico infatti dell’analisi di Malaparte è la vera motivazione di quella che è ancor oggi la peggior sconfitta miliare della storia d’Italia. Si sarebbe infatti trattato di una rivolta di popolo, il popolo delle trincee. I militari avrebbero messo in atto una vera e propria rivoluzione. Volontà di denuncia delle inutili stragi, sabotaggio e disobbedienza agli ordini: questo fu Caporetto secondo Curzio Malaparte. Da qui il termine disfattismo. Che non significa altro che “dire la verità”. Il concetto, scrive Pontani, sarebbe stato espresso nientemeno che dal Comandante della IV Armata, generale De Robilant.

Alla luce di questa visione trovo più comprensibile il famoso comunicato di Cadorna che dava l’intera colpa della rotta alla codardia dei soldati italiani. Una insolita presa di posizione che stride con l’impostazione austera e verticistica di Cadorna il quale aveva sempre sostenuta l’idea che i comandanti dovessero sempre assumersi meriti e demeriti dei sottoposti.

In ogni caso, destituito Cadorna, Diaz rivitalizzò l’armata mettendo al centro della propria azione non l’élite militare che era stata responsabile delle inutili stragi degli anni precedenti, ma gli ufficiali di trincea, coloro che avevano condiviso l’insensatezza e l’orrore delle precedenti carneficine.

 

                                           ***

 

L’approccio di questa analisi dei fatti di Caporetto, ci ricorda Pontani alla fine dell’articolo, è lo stesso di Emilio Lussu nel suo famosissimo Un anno sull’altipiano, ma la differenza sta nel fatto che questo non fu scritto a bocce ferme bensì a caldo. Fu una operazione di “verità in presa diretta” che finì per interpretare e favorire il risentimento dei reduci. Un risentimento sociale di popolo contro la casta che si convertì in grande viatico per il fascismo.

Questa visione della disfatta fu censurata e repressa dalla propaganda del ventennio successivo e ancora oggi non costituisce approccio sereno negli ambienti storiografici, ma uno sguardo più sobrio di quell’enorme atto di dissidenza è doveroso. E quel libro ne costituisce documento utile.

 

 

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