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diario di lettura e scritture semiserie by Francesco Boschetto. Brevi recensioni

La libertà di andare dove voglio, di Reinhold Messner.

La libertà di andare dove voglio, di Reinhold Messner.

La recente intervista televisiva di Fazio [5 Ottobre 2013] all’ormai settantenne Reinhold Messner ha presentato la riedizione italiana de: Die Freiheit, aufzubrechen, wohim ich will (München 1989). Il testo in Italia è già noto fin dalla traduzione di Umberto Gandini pubblicata da Garzanti nel 1992 nel volume „La libertà di andare dove voglio“.

I l’avevo letto ancora nel 2009 per circostanze assolutamente casuali visto che non mi interesso di alpinismo. Un collega col quale condividevo pasti e chiacchere della pausa mensa me lo aveva prestato in segno di amicizia ed io, non potendo sopportare l’idea di rimanere muto alle sue domande, lo lessi con malcelata rassegnazione. In realtà però scoprii di essere ingiustamente prevenuto verso l’autore a causa della sua iconica fama mondiale. Inoltre ero prevenuto verso l’alpinismo in generale che consideravo una pratica ormai schiava delle sponsorship globali. Vedrai che troverò un’epopea retorica tutta finalizzata alla promozione dei moderni materiali sportivi, mi dissi. Niente di più errato. In quel libro trovai una dimensione spirituale dell’estremo che non avrei mai immaginato.

Come dicevo non sono uno scalatore, ma mio padre mi ha insegnato la montagna e, pur essendo rimasto solo un escursionista della domenica, conosco l’intima spiritualità dei grandi spazi alpini, con la vertigine e la durezza del loro cammino. Conosco l’adrenalina e conosco “L’esperienza interiore di inoltrarsi nell’incertezza” (Pg. 346), espressione che trovo bella ed efficace. E Messner nel suo libro trasmette al lettore soprattutto questa dimensione, con l’efficacia e la sincerità di chi ha fatto ciò che racconta e soprattutto con l’onestà di chi in ogni sua impresa ha cercato non la gloria, non la fama, ma sé stesso.

Ecco alcuni appunti di lettura.

Pgg. 306 – 315

Descrizione della salita, avvenuta nella primavera del 1978 detta del “Breach Wall” (breccia parete).

Messner si trova sul Kilimangiaro per prepararsi e acclimatarsi in modo da poter realizzare il suo progetto di ascensione dell’Everest senza ossigeno, quando viene punto nell’orgoglio da un accadimento locale, il fallimento molto rischioso della salita al Breach Wall da parte di due americani considerati i migliori, con una conseguente sfida a provarci lui. Il diavoletto tentatore è il norvegese Odd Eliason che gli fornisce anche tutta l’attrezzatura necessaria.

Con Konrad Renzler, il suo partner nell’impresa e anche fotografo autore delle foto ivi pubblicate, riesce a farlo in dodici ore, evitando il bivacco che poteva rivelarsi mortale. Il pericolo principale della ascensione è dato da una “grande cascata di ghiaccio”, immagine suggestiva che dà anche il titolo al capitolo.

Descrive la tecnica di salita sul ghiaccio detta “piolet traction” ed elogia la piccozza “humming bird”, che grazie alla sua punta aperta e cava non spezza il ghiaccio e permette un innesto profondo.

Alla fine Messner riflette sulla temerarietà di quell’impresa improvvisata, ma considera vincente la scelta del piano di ascensione con gli orari e le velocità giuste per ogni tappa e per ogni tipo di difficoltà. In particolare fa riferimento alle giuste scelte effettuate in relazione ai pericoli connessi con le variazioni di temperatura e i rischi di scioglimento degli strati ghiacciati. E’ un ottimo esempio di valutazione dei rischi, che individua anche il “rischio residuo” ovvero la parte incalcolabile di questa valutazione (frane, scariche di sassi e pezzi di ghiaccio volanti) per concludere con il suo partner che: “non la rifarei un’altra volta”. Una delle foto a colori mostra esplicitamente le attrezzature usate.

Altre imprese (Pg. 322): sull’Everest nell’aprile del ’77 Messner nota un cimitero di tecnologie alpinistiche abbandonate e lo considera come un deposito di rifiuti. Dice:” Tutt’attorno c’erano mucchi di serbatoi per l’ossigeno vuoti. Centinaia di vecchi contenitori vuoti. E poi bombole di gas, paleria da tenda. Inizialmente avevo concepito l’idea di scalare l’Everest senza ossigeno per ragioni etico-sportive. Da quel momento prevalsero le motivazioni ecologiche.” Mi chiedo come possa essere la situazione oggi, dopo oltre trenta anni. Speriamo che Reinhold sia stato imitato, ma non credo proprio.

(Pg 339) Al ritorno dal Nanga Parbat in solitaria Messner rimane bloccato in tenda dal maltempo. Qui riflette su come nessuno mai avrebbe potuto sapere della sua straordinaria impresa se fosse morto assiderato in tenda, cioè una morte banale per uno che aveva appena concluso un atto eroico, addirittura epico per la storia dell’umanità.

In vari momenti Messner si chiede se l’indipendenza economica vale la pena e scrive:” Tuttavia sapevo che dovevo vendere le mie esperienze ai media e le mie conoscenze ai costruttori di materiali”. Ma più avanti egli precisa il suo disinteresse per l’aspetto economico della sua attività. Non si tratta di un disinteresse assoluto, ascetico, ma di una scelta etica. Egli infatti utilizza i proventi per finanziare altre imprese. Ad esempio a Pagina 355 egli scrive: “Un’avventura si può finanziare anche senza vendersi, buttarsi via. Il denaro per vivere lo guadagnavo con le conferenze, i libri, facendo pubblicità e disegnando materiale per alpinismo.” A proposito del materiale per alpinismo vale la pena di citare un episodio narrato prima, quando nel capitolo 28, dal titolo “SENZA VIA D’USCITA” narra della sua prima ascensione solitaria della via Soldà sulla parete nord del Sassolungo. (Pg 176) Qui Reinhold si trova “Sulla via Soldà, alla fine delle fessure bagnate, difficili. Settecento metri sopra il ghiaione.” E il manico del martello si rompe, rimanendo attaccato solo per alcune fibre. “Ero in trappola” … “Reggevo il moncherino del martello fra pollice ed indice. C’era scritto <<Made in Italy>>”. E’ una chiara allusione al disprezzo per l’Italia che alligna nell’Alto Adige. E anticipa il fatto che anni dopo prenderà molti soldi con le sue consulenze per materiali alpinistici. Non credo però che questo passaggio sia gradito da Confindustria…

Il Soldà che dà il nome alla via qui narrata è Gino Soldà eroe dell’alpinismo romantico anteguerra, compaesano coevo di mio padre e ancor oggi orgoglio dei valdagnesi. Assieme a lui le nostre glorie alpinistiche vanno condivise anche con Bortolo Sandri e Mario Menti, il cui corpo giace ancora tra gli anfratti dell’Eiger. I due amici, ricordati nei manuali di alpinismo, caddero il 23 Giugno del 1938 e il loro ricordo è ancora vivo tra i miei concittadini. Perciò la lettura delle parole messneriane risulta ricca di pathos: Pg 269: “C’erano vecchi spezzoni di corda sfilacciata ad indicarci la via.” Pg 270: “Lungo una balza verticale raggiungemmo le propaggini inferiori del secondo nevaio”. Pg 274 “... su tratti strapiombanti trovò qui e là singoli chiodi arrugginiti…” ecc.

L’Eiger viene vinto da Reinhold nel 1974 grazie all’idea di velocità, idea che permise a lui e al suo compagno di cordata di evitare le scariche della terribile parete.

Affascinanti sono sempre i preparativi delle sue spedizioni, che egli descrive con dettagli. Lo studio delle precedenti escursioni e dei diari scritti dagli scalatori precedenti risulta sempre suggestivo. (Pg 368) George Mallory e Andrei Irwine nel 1924 finirono dispersi sull’Everest. Mallory, osserva Messner, aveva capito che si poteva attaccare e vincere in sei giorni l’Everest con opportuno acclimatamento, con campo base dal monastero di Rongbuk (5100) ma solo nel 1953 Hillary e lo sherpa Tensing Norgay ci riuscirono dal Nepal anziché dal Tibet.

Pg 375 Il diario di Wilson, solitario del 1934. L’ultima pagina del suo diario dice: “Tempo splendido, muoviamoci”. Il compagno invisibile e la voce in Italiano… Wilson era un fanatico religioso e sull’Everest cercava Dio, anzi era certo di trovarlo. Qui Messner riportando le ultime parole del diario non allude esplicitamente al fatto che l’espressione è al plurale, come se Wilson parlasse con qualcun altro, ma lo possiamo supporre dal contesto; una pagina molto bella e rappresentativa della capacità di questo alpinista estremo di dare efficacia e precisione alle poche parole che usa. Poche ma buone come gli oggetti nel sacco dell’alpinista. A settemila si avverte la presenza del compagno invisibile e pian piano la sensazione diventa percezione. La voce gli parla in italiano, nonostante egli sia madre lingua tedesco e lui risponde in italiano, gli fa posto in tenda e condivide il cibo. Tutto questo in pochissime parole, che però fanno accapponare la pelle.

(Pg 378) Qui Messner parla del suo zaino come di un amico e dice chiaramente che sono sensazioni dovute alla “scarsità di ossigeno e l’insufficiente irrorazione sanguigna del cervello”. Poi dice che “lassù, già nel 1933, anche l’inglese Smythe aveva spartito le sue gallette con un partner immaginario.

Nel punto più altro egli trova un trespolo di alluminio piantato dai cinesi nel 1975 per eseguire misurazioni. Non poté far foto per eccesso di stanchezza.

Una bellissima foto in bianco e nero commenta il racconto. Essa mostra un lungo tracciato di orme ed è scattata con un formidabile teleobiettivo.

A mano a mano che ci si avvicina alla fine del libro emergono le considerazioni etiche sull’alpinismo e, come nell’intervista di Fazio, Messner mostra la fermezza dei saggi quando parla del rischio e dei fallimenti. Egli scrive a pagina 396: “Meglio falliti che morti”. E’ la considerazione migliore da fare di fronte a circostanze superiori avverse che impongono di ripiegare. La spedizione invernale al Cho Oyu costò “anni di progettazione”, mesi di preparativi, molte settimane di acclimatazione e diciannove giorni di fatica sulla parete; ma bastarono pochi minuti per decidere la resa di fronte al punto dove avevano previsto di piazzare l’ultimo campo. C’era neve cristallina, simile a zucchero, alta metri e metri. “Dovevamo correre un rischio mortale oppure arrenderci fin da ora. C’era il rischio di slavine”.

E le sue stesse espressioni comuni assumono nel contesto del suo racconto profondità e spessore, ad esempio in:” essere all’altezza delle fatiche” l’uso del termine “altezza” evidentemente richiama un significato alpinistico, ovvero implica in sé il concetto di fatica. E’ un raddoppio di significato che viene compresso in una frase brevissima, come se si volesse farcela stare nello zaino.

Il capitolo finale ovviamente è un po’ epico-moralistico. “La mia voglia di attraversare a piedi interi territori era così primitiva, elementare, che spesso non ho nemmeno scattato fotografie o tenuto un diario. Un camminare fine a se stesso. Le esperienze che non raccontavo si conservavano vive dentro di me più a lungo delle avventure collocate sul mercato. Un paesaggio fotografato troppe volte perde fascino esattamente come un’avventura raccontata troppe volte.”

Nel 1983 Messner comprò il Castel Juval posto in uno sperone di roccia tra la val Venosta e la val Senales, in Sudtirolo. Vi andrà ad abitare nell’autunno del 1985, dopo ristrutturazione. A pagina 416 il libro mostra una foto dall’alto del castel Juval ove Messner abita. E’ una fortezza rinascimentale ristrutturata.

“Una vita non può consistere solo di momenti culminanti.” Pg 428

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U
Se Messner non ha cercato la gloria e la fama ma se' stesso, perche' egli ha accettato di barattare la dignita' degli ideali con la loro mercificazione? Come per tanti altri fenomeni della modernita', la decostruzione postmoderna doveva arrivare anche all'alpinismo. L'impresa estrema in montagna acquisisce le sembianze di un impresa commerciale intarsiata dal mito. Eppure, se c'e' qualcosa che non puo' essere vissuta in terza persona e' l'esperienza vitale del corpo in balia delle forze della natura e del caso. La commistione tra fenomeni sociali e interessi economici e' arrivata anche dove l'uomo e' dio di se' stesso ed e' attore naturale della sua vita e della sua morte; anzi piu' li' che in altri campi. Messner impersonifica la degradazione materiale dello spirito, che e' la stessa sorte toccata alle religioni gia' molto tempo fa'. Messner, di suo, aggiunge il senso di colpa, che si esprime sotto la forma di dubbi amletici e un aristocratica e antiborghese difesa dello spirito planetario e originario delle cose, ma che lui stesso ha contribuito a degradare in forme patinate tipicamente borghesi. Se la sua ricerca dell'autonomia economica e' arrivata al punto da permettergli il possesso di quattro castelli e svariate altre ricchezze, poteva anche fermarsi un po' prima.
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F
temo che, per chi vive nel secolo e non nell'ascesi mistica, la &quot;degradazione materiale dello spirito&quot; sia una condizione inevitabile. Lo stesso atto di comunicare presuppone la materia.E' una condizione antropologica alla quale, ahimè, non possiamo sfuggire... Il problema semmai è la misura. Messner ha fatto le sue scelte e, per quanto possano essere discutibili, il libro resta una buona lettura. Grazie per le osservazioni.