[22. Giugno 2013]
Cena cantata presso il Ristorante La Linte di Recoaro Terme. Ieri sera dopo il tramonto, al sopraggiungere della notte più corta dell’anno, quella che il calendario gregoriano colloca tra il ventunesimo e il ventiduesimo giorno del sesto mese annuale e che la tradizione lega per altri tre giorni ai fuochi di san Giovanni (il Battista), noi abbiamo cantato. Abbiamo anche mangiato, anzi gustato, dedicando il nostro raffinato senso armonico finalmente al palato.
Il fatto, per noi nel nostro piccolo, è già in sé straordinario e va ben oltre il musicale. Occorre sapere infatti, che le prove del nostro coretto senza nome si svolgono da anni all’ora di cena del Venerdì e, di conseguenza, la cena salta. Di per sé, considerando la stretta osservanza di molti suoi componenti, la giornata sarebbe quella giusta per l’astinenza e il digiuno, e pertanto, almeno per quest’ultima pratica, il coretto aiuta … mentre la minoranza laica si adegua. Si adegua però in nome dell’armonia ovviamente, e quindi tutto torna.
Salta la cena, degusta le note. Questa sembrerebbe la “mission” del gruppo vocale, ma ieri sera invece nessun vuoto gastro intestinale ha accompagnato il nostro gran pieno vocale.
Dopo mesi di oscillante trepidazione (cantiamo si, cantiamo no, solo il coretto non si può, anzi si può… ecc.) abbiamo dato vita ad una serata dedicata all’amore, (quello cantato of course, perché in fin dei conti sempre di un venerdì di trattava…), con un evento titolato appunto: “L’amore cantato: dai madrigali ai Beatles”. E così è stato con un impegnativo programma, anzi sarebbe il caso di dire menù, canoro che ci ha visti spaziare tra lingue ed armonie d’ogni tempo e d’ogni sorta. E con magiche erbe. Le foglie di salvia, con i fiori di zucca e di robinia, erano state impanate e fritte mentre in sala le note d’ una intensa benedizione irlandese avvolgevano l’atmosfera per essere servite subito dopo un pezzo francese del sedicesimo secolo dal titolo più che mai appropriato “Il est bel et bon”. Successivamente un risotto ai carletti, seguito da gnocchetti con bruscandoli hanno predisposto il pubblico, appesantendo però i coristi per la verità, al secondo tempo musicale dedicato ai madrigali.
Eh sì. Questa era la parte maledettamente impegnativa. Si tratta di “composizioni nate attorno al 300, in voga fino a tutto il 600, come musiche alternative al canto spirituale e liturgico”, come ha specificato il nostro instancabile show driver, in ciò derogando lievemente dal precetto dell’astinenza, ma al tempo stesso ottemperando allo spirito pagano della immanente nottata e cogliendo i grandi e profondi significati profusi dai testi. Di tali composizioni alcune, come quelle di Monteverdi, sono audaci inseguimenti polifonici di testi poeticamente complessi, altre sono intensi canti ove l’amore è desiderio straziato. “Ora son costretto ad andare sebbene l’assenza mi faccia soffrire. L’assenza non può dare gioia e questa, una volta svanita non può più ritornare” canta Dowland nel suo inglese arcaico, perché: “fin che vivo ho bisogno di amare e l’amore non vive quando la speranza se ne va”. I versi procedono conducendo via via ad una “cupa disperazione”, ma vengono porti al pubblico con un cortese passo di danza grazie al quale ogni malinconia trova senso nel desiderio. Arcadelt, di una generazione anteriore a Dowland, aveva già scandagliato l’estrema tensione di questi temi musicando la metafora del cigno, il quale “cantando more” mentre “io moro beato”, dice chi canta una morte che nel morire “M’empie di gioia tutto e di desire”. Ma il segreto del bianco e dolce cigno sta nelle ultime, alte e fugaci battute musicali ove le nostre voci, già d’emozione inebriate, hanno svelato l’antico sapere della notte di san Giovanni con le sue erbe e le sue streghe: “Se nel morir altro dolor non sento, di MILLE MORTI IL Dì sarei contento”. Certo che per desiderare di morire mille volte al giorno l’amore deve essere proprio forte!
La terza parte è stata preceduta e annunziata dalla lonza di maiale. I peperoni all’aglio hanno dato corpo alla spiritosa e allusiva ironia del bacio a mezzanotte di Gorni Cramer, mentre il profumo di menta e le patate al timo hanno evocato la semplicità, nel senso di autenticità, del sentimento d’amore.
L’amore, anche se ti tiene sulla corda (la quarta in questo caso) è per sempre. Vecchio o giovane che sia, l’amore è tutto. Ecco, questo è l’amore che abbiamo cantato ieri sera, giusto o sbagliato, verità o illusione che esso sia. E lo canteremo ancora, come sappiamo fare “a cappella” senza voltarsi indietro (come dice James Taylor) perché non possiamo più farne a meno.
In quel locale ieri sera ho ricordato l’estate del 1969, quando quell’edificio ospitava un luogo ove si andava a ballare, chiamato Taverna ai Giganti. Erano i tempi in cui a Recoaro veniva Lucio Battisti a concludere il Cantagiro. Lui cantava l’acqua azzurra e chiara mentre noi, cercando l’avventura, prendevamo altre cose. Ma anche allora ciò che volevamo era l’amore. Qualcuno l’ha trovato, altri stanno ancora dentro di sé recitando i versi di Dowland, senza averlo mai detto a nessuno. Ed eravamo ancora tutti lì proprio ieri sera. Mah, in ogni caso in quell’estate i Beatles, giunti all’estremo della loro straordinaria epopea, concludevano l’incisione di Because, una canzone uscita poi col disco Abbey Road nella quale un John Lennon innamorato (nel bene o nel male) ha scritto che “il mondo mi eccita perché è rotondo, e quando il vento è alto, gonfia la mia mente…”
Grazie a chi è venuto, grazie a chi ha cantato.