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diario di lettura e scritture semiserie by Francesco Boschetto. Brevi recensioni

LiMes e il club dei sette imperi

 

 

 

 

 

Il secondo numero di LiMes 2017 è dedicato a fare il punto sulla situazione mondiale sotto il titolo accattivante di CHI COMANDA IL MONDO.

La monografia, che è piuttosto libera e svolazzante, si divide nelle canoniche tre parti cercando di esaminare il profilo di un improbabile NUMERO UNO, quello degli SFIDANTI e degli ALTRI POTERI. Mentre il robusto editoriale ci spiega che “nessuno comanda né ha mai comandato il mondo anche se qualcuno ha sognato di farlo”, pagina dopo pagina si assiste alla disamina dei punti di crisi vecchi e nuovi del sistema internazionale nella prospettiva indefinita dei pericoli di guerra globale e delle incognite collegate all’avvento di Trump.

Trump e l’America non sono la stessa cosa: il primo è il dito, la seconda è la luna. Si tratta ora di capire se questa America duale possa/ voglia comandare il mondo. Intende o no esercitare la funzione imperiale della sua imago mundi? No, niente affatto dicono gli elettori del vincente; la globalizzazione dipinta come espansione della democrazia, libera circolazione di merci e capitali, affermazione totale dei diritti individuale è solo una gran balla. La globalizzazione è perdita del lavoro, arrivo di stranieri e arricchimento dei competitors esteri. Nient’altro.

Mi viene in mente Federico Rampini che nella sua analisi più recente, presentata col suo ultimo libro anche qui a Valdagno la scorsa settimana, dice cose simili. L’élite globale ci ha traditi con la sua narrazione globalista politically corect. Ci ha nascosto che siamo allo sfascio di quell’ordine internazionale che il mito americano auspicava. Ci ha nascosto e insiste a nascondere il potenziale letale dell’immigrazione. E’ un’élite accecata che non si accorge che arriva Tramp. Fortuna, dice Rampini che è cittadino americano con diritto di voto, che abbiamo le elezioni di midterm come occasione per rimediare. Beato lui che riesce ad essere così ottimista.

Qui su LiMes spicca tra i miei preferiti l’analisi di Aldo Giannuli, ricercatore in scienze politiche alla Statale ma soprattutto esperto di geopolitica e poteri occulti. Egli propone al centro della monografia un ELOGIO DEL DISORDINE MONDIALE. Considera plausibile l’idea di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato mondiale. Critica la “globalizzazione neoliberista” con la sua frenetica delocalizzazione manifatturiera la quale, scrive, “ha modificato fortemente il pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti”. Critica la debolezza delle analisi antigobali elaborate prima della globalizzazione, sostanzialmente Negri (Impero, 2000) e Huntington (scontro di civiltà, 1997), osservando che le cose non sono andate né come dicevano i sostenitori né come dicevano i critici. Nessuno ha previsto il crollo del 2008 che, dice, è ancora in atto e teme una ripresa dell’unilateralismo americano voluto da Bush. In proposito arriva a dire che: ”la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una precedente traiettoria, che vede gli USA come unica superpotenza ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forze sempre meno favorevole”.(pg167)

Ma se cambiamo il ragionamento sulle prospettive di guerra o pace ci accorgiamo che forse può delinearsi all’orizzonte una alternativa. In passato si pensava che il pericolo di guerra fosse legato ad uno scenario di anarchia degli stati, un processo conflittuale da evitare attraverso la costruzione di un ordine mondiale. Ma è proprio questa visione che ci ha portato alla convinzione che occorreva una potenza egemone, quella americana, una convinzione non più sostenibile. In quell’ottica il nuovo ordine mondiale sarebbe stato basato sul compromesso tra la spada e la moneta mentre oggi non è realistico che gli USA possano ripristinare il livello di spese militari pre-crisi, così come non è più realistico pensare che essi possano invertire la dinamica delle delocalizzazioni riportandosi a casa le manifatture. Oggi la reazione cinese ad una simile politica sarebbe insostenibile anche per l’America di Trump.

Meno irrealistica invece appare l’idea di “club dei sette imperi”. Essi sarebbero USA, UE, Giappone, Brasile, Russia, India e Cina. I quali rappresenterebbero oltre il 50% della popolazione mondiale e i tre quarti del PIL mondiale. Ma ci sono ancora molte controindicazioni a partire dallo sgretolamento dei rapporti USA/UE e le prospettive di scontro sino-americano. Inoltre Trump non sembra proprio disponibile a destrutturare le 745 basi militari, le sette flotte e il dollaro come moneta internazionale. Siamo quindi difronte ad una suggestione solo auspicabile e non ancora praticabile. Ma accontentiamoci.

Intanto leggiamoci LiMes e Rampini forse brancoleremo un po’ meno nel buio di questi tempi.

 

 

 

 

 

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