diario di lettura e scritture semiserie by Francesco Boschetto. Brevi recensioni
Recentemente un quotidiano che ama mettere i piedi sul piatto e che non brilla certo per
delicatezza, ha attaccato le donne che leggono. Mi sono recato in biblioteca civica, che ho trovato con molte più donne che uomini, e ho cominciato a leggere questo libro. E’ scritto e letto soprattutto da donne e costituisce una lezione di stile e delicatezza. La sua lettura è stata il mio piccolo gesto, da
dedicare a quel direttore.
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C’è innanzitutto un prologo/premessa narrativa di quattro pagine in cui vengono introdotte “le matte” ovvero le donne protagoniste delle storie (autobiografie romanzate) che seguiranno. L’autrice assume un punto di vista esterno, quasi etereo, rispetto ai fatti che narra e colloca idealmente la psicoterapista (Natasha, personaggio ultimo, che funge da collegamento narrativo) tra le stesse donne protagoniste. Queste donne matte, le quali parleranno ciascuna in prima persona, sono però solo delle nevrotiche. Ma delle semplici nevrotiche che vengono percepite come delle matte da legare dagli “omaccioni armati di vanghe e zappe… che hanno smesso di lavorare per guardarle, in modo sfacciato, senza alcun pudore stando appoggiati ai loro attrezzi”. Forse è una prima allusione al pregiudizio, ma diventa simpatica quando UNO di loro si stacca e trova il coraggio di chiedere un autografo ad UNA di loro, Andrea, popolarissima conduttrice televisiva, giornalista di notevole bellezza. Nello svolgersi di queste prime quattro pagine il testo ci conduce dal modo in cui le guardano gli uomini al modo in qui le guarda la psicologa, anche in quanto donna, con la sua sensibilità e la sua solidarietà di genere.
In questa premessa ci viene spiegato dove siamo e quale sia la situazione che fa da contesto alle storie delle nove donne narranti. (la decima sarà Natasha).
Siamo appena fuori di Santiago de Chile, ai piedi della cordigliera andina. In un Istituto non meglio precisato, il cui direttore presta i locali di sabato a Natasha, la quale presumibilmente cerca di condurre delle terapie di gruppo o comunque delle riunioni di comunità tra donne in terapia. Per queste nove è un giorno speciale. Sono salite in pulmino dalla fermata Tobalaba della metropolitana. E lei, colei che narra l’intera storia, le guarda dall’interno dell’edificio dietro la finestra. Le aspetta per andar loro incontro e le contempla. E’ l’esperienza di una terapista che mette assieme le pazienti per la prima volta. Donne che non si conoscono e fanno la loro conoscenza per la prima volta in quel viaggio in pulmino. In quella giornata di riunione. Con pochi tratti vengono descritte e umanizzate, immaginandole nei preparativi per la giornata che inizia qui alle nove, sulla strada per Peñalolén.
Poi basta. Nessun’altra spiegazione: la parola alle donne. Fino all’epilogo.
FRANCISCA (pgg 15-42), è la prima di queste dense biografie. Donna sessantenne, di personalità aperta, orientata culturalmete, impegnata ecc. costei narra di se stessa in modo fluente, tagliente, dando l’impressione di sapere dove vuole arrivare e di esserci vicino. E’ nata in una casa confortevole e decorosa di calle Bilbao, zona est di Santiago ed è approdata da Natasha molti anni prima, considerando il suo bisogno di terapia una questione “di vita o di morte” (pg 16). Temeva infatti di diventare una donna “perversa, che abusa dei propri figli e li maltratta”.
E’ una questione direi di backgorud matrilineare. Il rischio degenere dei suoi comportamenti le viene infatti dalla madre e dalla nonna, russe che discendono da una famiglia fuggita a Parigi per sottrarsi alla rivoluzione bolscevica. “Il mio sangue è per tre quarti cileno, cioè spagnolo e mapuche” dice Francisca, “Ma quando mi passa per la mente qualche idea un po’ eccentrica… è la mia parte russa, che non lascia presagire niente di buono.” La nonna, “bella donna bionda, precoce e irriverente…” fu una debosciata frequentatrice di casinò europei, che dopo aver dilapidato l’eredità sposò un diplomatico cileno di second’ordine. Ed emigrò a Viña de Mar, dove morì quando Francisca aveva dieci anni. Mentre la madre ha sposato un economista - che viene descritto con un profilo conciliante, ma di secondo piano – ed è prorpio costei, la madre di Francisca il personaggio fortemente problematico del racconto. Questa madre infatti è una figura depressa, totalmente disimpegnata ed assente, che ha creato un profondo vuoto affettivo in Francisca e non le ha insegnato niente. Neanche le “cose da donne”. Alla morte prematura del fratellino Nicolas, che contrariamente a quanto provava per la figlia, lei amava, la famiglia si trasferisce a New York dove poi la situazione precipita perché la madre si mette con un’altra donna.
Francisca non usa la parola “lesbica” e non indugia in spiegazioni, rimane sul disagio e descrive una vicenda di progressivo degrado. Un degrado patologico che, aldilà delle successive vicende e peregrinazioni, sta alla base della reazione positiva di Francisca, figlia adolescente che riesce ad uscire da tale dramma con amore per il padre e con positivi interessi per gli studi artistici. Finisce l’università e si sposa diventando donna efficiente ed energica in casa come al lavoro nello studio di architettura. Ci riproverà ancora con la madre, ma imparerà che “non tutti vogliono essere salvati”.
Ma il senso di colpa che la coglie nelle notti di pianto e di rabbia, ha progressivamente sostituito pian piano il vuoto affettivo della sua anima, ed accompagna da allora la sua vita. Per Francisca ancor oggi sarebbe presuntuoso dire di aver superato il problema, ma anche grazie alla terapista Natasha, la quale paradossalmente è proprio russa (in realtà come vedremo è bielorussa) e compulsiva come la nonna, ha imparato a conviverci e lei, Francisca, ha spezzato la catena interrompendo la catena ereditaria. Le figlie non corrono più quel rischio, questo viene detto con chiarezza, tuttavia questo non è il racconto di una vittoria, al massimo di un pareggio. Direi infatti che queste sono parole di una donna che ha pareggiato con la vita. E spera che un giorno saranno le figlie, cui non ha trasmesso la maledizine ereditaria, a vincere un giorno la partita con la vita.
MANE’ (pgg 43-69) è stata bella come Gloria Swanson, forse anche di più, e come nel suo film più famoso, è sul viale del tramonto. E’ la più anziana del gruppo e la sua storia promana una forte sincerità vissuta. Il suo disagio è collegato con due fattori: la sua bellezza, per la prima parte, e la vecchiaia in solitudine oggi. “Quelle donne che si riempionio di figli per programmare la propria vita mi fanno orrore; ma non raccontiamoci frottole, la vecchiaia è molto diversa con o senza figli”. E lei non ne ha. Ha fatto il liceo e si è guadagnata la pensione nella seconda parte della vita insegnando recitazione. Ma soprattutto è stata attrice. Lo è stata più per il suo corpo che per la sua bravura e questo le pesa ancor oggi. Ha amato Rucio, il biondo. Poeta. “Gli rimasi accanto zitta zitta come devono fare le muse.” Lo ha sposato e ne è rimasta vedova. Ma “con l’amore succede così. Anche se Rucio mi ha lasciata, anche se rimanessi sola fino alla fine dei miei giorni, non importa, quello che ho provato per lui mi ha trasformata e quando sono riuscita a comprenderlo, l’ansia si è dissolta.”
E poi arriva la vecchiaia. Quella condizione di stanchezza continua nella quale:”gli uiomini che qualche anno prima mi morivano dietro, adesso mi attraversano con lo sguardo come se fossi invisivile, come se non esistessi.” Ma è anche l’epoca della serenità, perché in realtà “quella bellezza che ora non esiste più rende tutto più doloroso.” Manè affronta la vecchiaia e la solitudine parlandone con parole sincere. Sa che accettarla è l’unica via d’uscita e che: “ la vecchiaia è anche smettere di ridere” (58). Non si perde d’animo, anche se: “la vecchiaia si misura in base alla percentuale di corpo che supera l’esame davanti allo specchio e quando ti viene voglia di coprirti tutta, è finita”. Per lei, ora che ha settantacinque anni, c’è la prospettiva del pannolone e delle medicine.
I ricchi non prendono le stesse medicine dei poveri e lei non è ricca. Nove al giorno: pressione, colesterolo, glicemia, ansia e via dicendo. “E quando non ci sono i farmaci generici cado nel panico. Non posso permettermeli…” Inoltre i poveri non possono cadere in depressione, è un altro lusso. Come si fa a pagare una psicoterapia? Fortuna che Natasha lavora col metodo “pro bono”: fa pagare ai pazienti ricchi (che non le mancano) anche per i pazienti poveri. E qui (a pg 62) fa una una considerazione degna di nota: “ nei paesi ricchi dagliela con la fisima di voler allungare la vita… ma che cos’è tutta quest’ansia accidenti? …la vecchiaia sta diventando un grande fastidio per il pianeta. Se la nostra cultura fosse diversa, magari come nelle religioni orientali che venerano la vecchiaia, sarebbe un altro paio di maniche.”
La vecchiaia però conserva un lato fantastico: nessuno si aspetta più niente da te. Fine delle aspettative… se l’invidia non ti ha torturata da giovane di certo non verrà a farlo adesso.
JUANA (pgg 70-106). Qui c’è il Ritalin alla grande. Devo dire che a questo punto della lettura sospettavo che la pubblicazione di questo libro fosse un’operazione legata ai nuovi obiettivi globali dell’industria della depressione, ma poi ho ridimensionato il sospetto perché in vari punti delle storie qui narrate in realtà il tema della depressione e dei farmaci viene trattato con correttezza e se si fosse voluto far passare messaggi surretizi sul “desease mongering” non si sarebbero usati quel distacco e quel riguardo che invece la Serrano usa nel suo testo. Onore al merito quindi e bando ai sospetti infondati.
La terza donna che parla del suo disagio è Juana, trentasette anni, cerettista in un salone di bellezza. Il suo lessico è diverso, cambia il livello sociale, la cultura ecc. , ma non il senso di autenticità. Juana è infelice, preoccupata, insicura, ma piace e ti fa stare dalla sua parte. “Sono single, porca puttana, ma mi piacerebbe tanto avere un uomo, compagno di vita. E di letto.”
E’ una ragazza madre come sua madre. Sofre di “deficit di attenzione o ADD come dicono gli americanI” e deve perciò prendere un Ritalin al giorno. Il suo problema più grosso però, è la sua unica figlia, Susy, la quale è appena uscita dall’adolescenza con una grave depressione che in breve evolve in disturbo bipolare. All’inizio le dava l’ansiolitico Xanax, che viene usato anche contro la nausea chemioterapica, ma ora è in stretta cura psichiatrica e sempre “sotto farmaci”. Ma non è tutto, la madre è ischemica e recentemente un ictus le ha tolto l’autosufficienza. Tutto questo grava, solamente, su Juana.
Lei è il tipo che sogna di avere gli occhi verdi e ogni settimana compra il biglietto della lotteria per diventare ricca. Ma al primo posto dei suoi pensieri deve porre il riscaldamento e subito dopo le medicine. Il costo delle medicine è un tema presente con forza anche in questo, come nel precedente, racconto. La mutua paga solo la visita periodica dello pscichiatra, che le prescrive. Juana vive nel perenne desiderio di miglioramento sociale e si confronta con le persone che conosce nel lavoro, in particolare le sue clienti di ceretta, alcune delle quali sono per lei veri modelli di riferimento. E’ il caso in particolare di Maria del Mar (più ricca) e di Lourdes (più povera). Quest’ultima è una immigrata clandestina peruviana (il Cile è notevolmente più sviluppato), che fa le pulizie nel negozio. Su di lei il racconto spende altre quattro pagine e la frase che le riassume più efficacemente è di Juana:” non so che angeletti volassero sulla sua culla quando è nata, ma l’hanno perseguitata senza darle tregua.” Maria del Mar invece è in una situazione più fortunata “grazie al Ritalin”. Ha affrontato il deficit di attenzione ed è diventata ossessiva nel far bene le cose. Oggi è “intelligente, meravigliosa, amata e per di più ricca… Tutto attorno a lei ha qualcosa di etereo, è come fosse avvolta in un tulle celeste che la protegge ed allontana il male.”
Io sono una poveraccia rispetto a Maria del Mar – dice Juana - , ma sono ricchissima rispetto a Lourdes. Sono un poco di entrambe. E ciò l’aiuta anche nell’amore che per quanto altalenante, alla fine non le manca.
SIMONA (pgg 107-139) sessantunenne, ricercatrice per un ente non cileno, è una donna di ceto abbiente, figlia della vicenda culturale tipica della nostra generazione. Femminista, di sinistra, viene da famiglia cattolica, rigorosa che le ha dato un’educazione preconciliare che poi è saltata con le vicende degli anni settanta. In pratica un curriculum di formazione culturale come quello mia moglie e le sue amiche, se non fosse per il fatto che negli annin del golpe Simona è stata esule.
Per un lungo tratto della sua narrazione Simona non manifesta sintomi di disagio patologico. Vive un problema generale, quasi ideologico direi, con gli uomini, che definisce fin dall’inizio “OGGETTO SIMBOLICO” e vive un problema più specifico con il suo secondo marito, Octavio, che è teledipendente. La frase centrale di questa prima parte è a pg 115, laddove dice:” la mia è una storia trita e ritrita: ragazza-bene-ribelle-abbandona-la-sua-classe-sociale-per-fare –la-rivoluzione. Sono un caso da manuale. Ed eccomi qui, quarant’anni dopo, a rendermi conto che sono passata da uno stampo all’altro solo cambiando il contenuto.”
Con i cinquant’anni, a figlie cresciute, arriva la scelta della rottura. Radicale. Lascia il marito, vende la casa, entra in terapia e cerca una nuova vita da single. Tutto qui. Semplice se non fosse che alla base c’è una depressione. Per giunta incompresa e sottovalutata dal marito. E’ una depressione da vicenda maritale insoluta, che arriva alla fine di un lungo periodo in cui ha resistito tenacemente, cercando di farsi una ragione dei difetti del marito, uomo tipico (secondo la narratrice of course), amorevole ma intransigente di fronte ad una partita del Real Madrid.
A cavallo tra la prima e la seconda parte (secondo la mia lettura perché il testo non ha distinzione formale) abbiamo quello che io definirei, un po’ ironicamente, l’inserto Prozac. Si tratta di un inserimento di testo (del tipo:“a proposito di …” ecc.) del tutto estemporaneo nel quale questo farmaco (a lungo contestato, anche in Italia) ci viene presentato addrittura come “un’importante questione di genere” (pg. 121). Come ho già detto non voglio criticare Marcela Serrano, che sa scrivere bene e merita il successo, ma qui fa assumere al suo personaggio un atteggiamento verso i medicinali che presuppone una discriminante tra uomo e donna assolutamente sopra le righe, al punto da farle dire un’invettiva che val la pena riportare per intero:”Gli uomini si sentono tanto virili perché “superano i problemi da soli”. Da soli significa senza medicine nè terapie. Secondo loro affrontare i problemi senza l’aiuto della chimica è una grande impresa maschile. Da dove viene questa solenne idiozia? Ho sentito uomini raccontare di essere riusciti ad uscire da una depressione DA SOLI, per conto prorpio. Come fanno a non capire che la chimica può essere un’ancora di salvezza? Che una pillola al giorno, una minuscola e insulsa pillola può dissipare i veli cupi che nascondono il sole?” Qui l’invettiva, che nel contesto narrativo divrebbe essere contro Octavio in quanto “inorridito da tutto ciò che aveva a che fare con psicoterapie e farmaci psicotropi”, diventa blandizia di principio, quasi universale, in cui la medicalizzazione della depressione viene rivendicata come una bandiera femminista… Waw!
Per fortuna poi il testo riprende una narrazione lineare e, senza ulteriori svolazzi ideologici, ci ridona una Simona che, coraggiosamente, si ricostruisce una indipendenza per uscire dalla depressione. “La vita di società ha una data di scadenza, come lo yogurt” (pg 129). Rompe con tutto tranne il lavoro. E in questa nuova vita in riva al mare non le mancano i soldi per i farmaci, né per tutto ciò che le serve, dal labrador all’iPod. E’ chiaro che la sua condizione di agiatezza economica la rende inconfrontabile con i casi precedenti e ti viene voglia di dire: “ambè … allora semo boni tutti…” Ma in realtà il personaggio è solido, accenna alla Yourcenar come riferimento per lo stile di vita e compatisce tutte le donne che venderebbero l’anima per tenersi stretto l’OGGETTO SIMBOLICO. L’interesse per la politica le è rimasto perché, come dice lei stessa, è insito nel suo DNA e non riesce a liberarsene. Non sente la mancanza del sesso e ritiene di aver avuto la dose di amore che le spettava. Ed è sicura che sia così anche per Octavio, salvo qualche insignificante avventuretta, col quale ha proprio chiuso, anche se lui vorrebbe ritornare. Octavio “ colui che per più di venti anni è stato ogni giorno la mia ostia consacrata. Ma lui non lo sapeva”.
Simona insomma è una vincente, e questa nuova vita fondata sulla aspirazione alla massima libertà le attenua la paura della morte. Antisociale e menefreghista, arriva al punto di enunciare il suo epitaffio: pura egoista, eremita perché presuntuosa. Ora Simona ha la quiete e brinda al presente.
LAYLA (pgg 140-163). Questo personaggio, in posizione centrale nella serie narrata, è complesso a sa di thriller holliwoodiano. Una cilena di origine araba, nata nel 1969, è giornalista, paranoica, alcolizzata. E’ una immigrata palestinese di seconda o terza generazione, che ha voluto studiare da giornalista ribellandosi alle regole familiari. E’ fissata col tema della memoria per il suo popolo, e ciò può rivelarsi pericoloso.
Attraverso al – Fatah si trasferisce a Gaza in qualità di inviata. Proprio a Gaza, nel cuore dell’orrore e lei, abituata al modo di vevere tranquillo della borghesia cilena, ha una vita dura. E questa pagina dura della sua vita, il periodo palestinese, le fa conoscere la violenza: tre militari israeliani la violentano. Inoltre viene tradita dalla spirale, suo mezzo anticoncezionale, e si accorge molto tardi, in Cile, di essere incinta. Niente aborto perché “in Cile è tutto serio, anche l’illegalità” (pg 148)
Il suo bambino ha i capelli chiari e gli occhi verdi. Lei prima non lo ama, poi lo ama, insomma la storia è complicata. Scrive un libro di successo che all’inizio della sua vita single, le dà un po’ di autonomia economica. Ma non è felice, non ha la pace e ben presto si arrende al pisco (liquore cileno).
“Ogni notte accarezzavo con lo sguardo il corpicino di mio figlio. Così minuscolo e fragile. Lo ammantavo di silenzio. Ero riuscita a fare in modo che nessuno sapesse che proveniva dalle viscere del nemico. Il problema è che IO lo so.”(150) Poi il suo travaglio si complica e la sua critica al Cile, che lei definisce, un po’ ingenerosamente:” uno dei paesi più razzisti e classisti del mondo” è graffiante e affascinante. Così come lo è la storia di Ilena Sendler (da leggere, pgg 153-154), alla quale Al Gore ha soffiato il Nobel per la pace. E alla fine cede:” La realtà era una regione gelida ed infelice che non volevo abitare”. Tira avanti, bada al figlio e si guadagna la vita insegnando, ma non ce la fa a controllare le inadempienze perchè è un’alcoolizzata tipica: prigioniera della negazione. “Gli alcolizzati negano sempre di esserlo, non hanno la consapevolezza della malattia. Per cui nella maggior parte dei casi qualcunio deve aprire loro gli occhi. Il problema è: chi?”. Qui Leyla ci descrive in modo struggente e crudele tutto il ciclo del suo degrado, compreso l’abbandono del figlio per dimenticanza da sbronza. E poi, la scelta estrema. Che la fa finire in clinica psichiatrica. Qui arriva la psicoterapia con Natasha, grazie al padre, ammette. E ora, che racconta la sua storia, ne è uscita. Pensa al figlio e insegna ancora. Fa progetti, vuole scrivere un libro sulla Cina.
La storia di Leyla è forte, straziante. E’ la più dura di tutto il libro e merita per la lezione che lei stessa ne trae e per le spiegazioni cui giunge grazie alla terapia. La sua lettura può essere dura, ma ne vale la pena anche solo per le parole che usa.
“Natasha mi ha detto che solo raccontando la mia storia avrei potuto mantenere il controllo su di essa. Ed è quello che ho fatto oggi. Per poter guarire qualsiasi persona deve essere capace di farsi carico dei propri ricordi. E per farlo ha bisogno delgi altri. Oggi ho incaricato voi di essere miei testimoni…”
LUISA (pgg 164-184) Storia cupa e buia come il profondo sud australe. Altro che il sole atacameño di Andrea, che vecdremo più avanti. Qui la storia comincia duemila chilometri sotto. Il Chile è proprio questo: una nazione che congiunge gli estremi. E anche queste due donne sono due estremi opposti. Mentre scrivo non riesco a rileggere LUISA senza confrontarla con ANDREA, moderna manager l’una, antica contadina l’altra; ricca l’una povera l’altra ecc.
Luisa è una donna con un profondo disagio dovuto alla vedovanza di fatto. Suo marito infatti è un un attivista sindacale fatto sparire una mattina presto dalla polizia del regime di Pinochet. Un desaparecido cileno. Questa definizione, che si trova anche nella quarta di copertina, è una semplificazione impropria. Il fenomeno della desapariciòn infatti è una specificità della esperienza argentina, non cilena. I due golpe sono stati molto diversi come tecniche attuative e prassi gestionali, ma questa diversità non viene colta in questo testo, senza peraltro inficiarne la qualità. La storia comunque è forte, densa perché questa donna è forte, umile e piena di dignità. Traspaiono in lei tutti i limiti di una cultura arretrata: l’antipolitica, la sottomissione ecc. Luisa per esempio non ha mai denunciato la scomparsa del marito e non lo aveva mai incoraggiato nella sua esperienza nei cordones industriales e poi, quando è arrivata la democratizzazione il suo caso non risultava nell’elenco del rapporto Retting, di coloro che andavano risarciti. Ma il vero problema è che lei lo aspetta ancora. Traspare in lei un senso di ottusità dovuta ad una cultura della diffidenza, una difficoltà di capire che logora anche il rapporto con gli altri familiari. Una visione atavica e fatalista della vita che la porta a nascondere ai propri figli la vera natura della scomparsa del padre, negandone così ai loro occhi lo status di martire politico e negando senza accorgersene, l’onore alla sua memoria. Il fratello non la perdonerà e il figlio si allontanerà da lei per vivere nel nord europa. E anche la figlia, l’amatissima Golondrina, alla fine raggiungerà questo fratello lasciandola alla sua vita e alla sua solitudine.
Tutto questo però non cambia l’intensa e sincera natura del suo amore. Suo marito Carlos lo hanno portato via in pigiama e lei proverà per sempre un senso di freddo. Ebbene questo senso di freddo pervade il racconto, ma non gli toglie il fascino e la tensione affabulatoria. Dove sei amore mio, dove sei che non mi senti? E qui, da questo malinconico sentimento nasce la storia del tumore al seno, ovvero il luogo ove Luisa ha nascosto il suo dolore. E lei ne è consapevole. Mastectomia ecc., depressione. “Ho sessantasette anni. Ormai è passato tutto. Eppure sono ancora viva.”
GUADALUPE (pgg 185-209) E’ una adolescente. Narra le sue vicende patologiche partendo dal presupposto di essere lesbica. La lettura di queste pagine passa dall’avvilente al comico, dal rifiuto per una adolescente bullista alla simpatia per il suo senso estremo di indipendenza. Ora ha raggiunto i diciannove anni e parla (quasi) come una donna matura, una donna che per quanto giovane è ancora l’esempio di un vissuto tragico ed estremo. “Grazie a Dio la scienza ormai ha chiarito che non si è omosessuali per scelta: omosessuali si nasce… Nessuno è colpevole, non i genitori, non l’educazione, né lo stesso interessato. E’ come nascere con gli occhi azzurri. Vuoi nasconderti per tutta la vita dietro agli occhiali scuri?” E così lei combatte, e ha anche fortuna. Ma alla fine è depressa. La sua è la depressione più profonda e devastante. La parola disagio qui sarebbe eufemistica e rischiosa, indurrebbe a sottovalutare il vero rischio perenne di Guadalupe: il suicidio.
Qui è interessante come la prosa sia ostentatamente giovanile e poggi su lessico originale e diverso da tutte le altre donne. In questo Marcela Serrano è brava e di questa sua qualità anche qui abbiamo riscontro.
ANDREA (pgg 210-231) dato che non possiamo cambiare la realtà, cambiamo la conversazione. “Temo di amare sempre meno. A volte penso che questa è una delle ragioni della solitudine dei vecchi: si crede che i vecchi siano soli perché nessuno li ama, mentre forse sono soli perché non amano più nessuno.” (pg 226) “Sperimento il dolore di avere amato e non amare più… ho talento e potere, ma non so amare di nuovo.” Andrea resta in attesa che la vita le dica ciò che le deve dire; ma l’importante è che la vita stessa, quando andrà a cercarla, non la trovi sconfitta. In queste frasi per me Andrea tradisce la tentazione di considerarsi vecchia, mentre invece è giovane. Penso che sia perché vive la condanna della donna manager, ovvero la paura che la perdita dell’avvenenza giovanile, si accompagni alla perdita del potere professionale accumulato.
Andrea è una quarantenne di successo, una vincente nella vita. Ma solo quella esteriore, quella che vedono gli altri, o meglio: la sua immagine nei media. Non c’è un posto dove non la riconoscano, non le chiedano un autografo ecc. nello stesso prologo del libro lei è quella, tra le nove donne, che viene riconosciuta dai giardinieri. E’ moglie e madre e queste relazioni funzionano, ma tutto questo non le dà alcuna felicità o serenità. Lei, nevrotica, vive un disagio femminile e per questo è in terapia. Televisione, successo, ostacoli, paura del pacoscenico, attacchi di panico, complotti, trappole le determinano un’ansia di fuga che la perseguita. Si ritira nel deserto di Atacama, ma fugge anche da là per tornare a casa dove prova una nuova crisi attaccandosi alla maniglia della porta.
Il suo disagio è un miscuglio di stress, dipendenza e attacchi di panico e il suo sonno non è mai spontaneo, è impedito a causa dei pensieri ossessivi, come l’audience ecc. “allora ricorro alle pastiglie, ma come le odio, invento continuamente formule che non diano assuefazione. Un tranquillante di pomeriggio, un ansiolitico alla sera: odio dipendere dalla chimica. Quindi gioco con le dosi, le riduco e prendo un quarto della tale pastiglia e mezza di quell’altra così le tengo sotto controllo. Sono la classica donna che si auto medica. Questo passaggio (pg 215) esprime la paura di essere dominata e anche la sua reazione: dominare il farmaco attraverso una auto manipolazione del dosaggio.
ANA ROSA (pgg 232-255) “Ho vissuto tanti anni dalla parte sbagliata del silenzio perché ho taciuto e perché non potevo fare altro.”
Nel racconto di Ana Rosa, che ha trentun anni e ne ha passati quindici orfana a gestire la famiglia, un lessico familiare impregnato di cattolicesimo alimenta il profondo senso di colpa che accompagna la sua vita. Nella sua psicologia complessa e incentrata appunto sul senso di colpa, l’atteggiamento verso il sesso appare chiaramente come il risultato deliberato di una decisione cosciente. Una decisione che rappresenta il risultato finale di una elaborazione consapevole. E lei prende questa decisione dopo aver provato il sesso con un ragazzo coetaneo: “ a partire da quel momento ho potuto dirlo: non m’interessa il sesso. Non mi piacciono gli uomini, e anche se l’ho detto soltanto al mio cuscino, l’ho detto, e così ora sono più tranquilla”. Ana Rosa, dentro, ha un segreto edipico e la rinuncia consapevole al sesso per la vita, compensa il suo colpevole silenzio e quando alla fine riesce a DIRLO, anche se solo a sé stessa Ana Rosa ristabilisce un equilibrio, un equilibrio stabile, fondato però sull’accettazione di questa rinuncia. Negandosi il sesso lei si nega la maternità e così si tiene al riparo dalle tentazioni oscure e violente che descrive a pg 252, legate alla voglia di vendicarsi sui figli perché inferiori, indifesi ecc. Nelle pagine 244-247 a mio avviso c’è la lettura di una confessione ancora mascherata del rapporto col nonno, tutto resta ancora nel non detto, ma il ritmo e la narrazione sono toccanti: “Dunque compii otto anni, e la sera cominciai a raggomitolarmi su me stessa, da un giorno all’altro le mia mani diventarono due creature vive e indipendenti da me, e si stringevano tra di loro convulsamente e si strofinavano e non stavano mai ferme e mi si ricoprirono di chiazze rossastre, screpolate e orribili, mi facevano male… Mi dissi che era quello che Dio voleva da me e il mio dovere era rendere felice il nonno, io gli dovevo così tanto, avrei fatto tutto quello che mi avesse chiesto.” E quando il nonno morì lei stette al suo capezzale per tutti i suoi ultimi giorni e gli fece l’unica domanda che ebbe il coraggio di porgergli: “ Perché mia madre non mi ha protetta?” Perché a lei ho fatto lo stesso che a te, fu la sua risposta.(pg 251) Tragico nella sua semplicità.
In questa biografia l’origine edipica del senso di colpa è chiara, ma mai esplicita. Durante la lettura l’idea di una immanente concupiscenza del nonno, su di lei e su sua madre, è latente, continua, ma è solo allusa, mai esplicitata. In ciò a mio avviso sta il carattere autenticamente narrativo, che ne fa il testo di una scrittrice, non la relazione di una psicoterapeuta.
La sua prosa è permeata di un senso di rassegnazione non angosciato, quasi sereno. Ma probabilmente l’ansia inizia proprio lì, col conseguente rischio di depressione, perché per poter conservare tale equilibrio, tale compostezza, lei deve ignorare, negare le spinte del desiderio e si aiuta con la sottovalutazione: sono insignificante, sono brutta come come un topo e non attraggo nessuno. Con Natasha lei cerca tra i ricordi, per capire; e si ha l’impressione che nella quotidianità lei sappia gestire la stabilità del suo equilibrio, ma nel divenire (lei è ancora giovane, ha solo trentun’anni) incombe la minaccia. E finalmente, nelle ultime righe, la natura del suo male viene messa in chiaro. La sua compostezza potrebbe essere annientata, le sue preghiere potrebbero non bastare e lei verrebbe ricondotta tra “le zone d’ombra” della sua anima. E allora guai, perchè se ciò avvenisse sarebbe la angosciante conferma che “gli abusi di cui sono stata vittima mi hanno guastata per sempre”.
NATASHA (pgg 256-281). E’ l’ultima storia, ma attenzione perchè non è lei che si racconta, qui abbiamo un narratore in terza persona: la sua assistente, con la quale lavora e sta insieme da una vita.
Natasha è nata a Minsk, in Bielorussia nel 1940 ed è un’ebrea argentina per adozione. Il padre, Ruby, cinque anni prima di sposare la madre di Natasha aveva avuto un’altra figlia, Hanna, con una nobile decaduta. Questa sorellastra sarà un pensiero costante per Natasha e sulla sua ricerca si snoda il racconto romanzato della sua vita.
Studia psicologia a Buenos Aires dove conosce colei che narra. Poi studia medicina in Francia, nella Parigi degli anni sessanta dove all’età di venticinque anni conosce Jean-Henry, colui che successivamente diventerà suo marito, nonché padre dell’unico figlio Jean-Cristophe. Frequenta ambienti del partito comunista francese e sfrutta questi rapporti per cercare la sorellastra in Unione Sovietica. Ma fallisce la prima ricerca dopo un viaggio a Minsk. Torna in Argentina ove esercita professionalmente, facendo visite private in un ospedale pubblico di Buenos Aires. Poi si trasferisce in Cile e lì conduce il lavoro che esercita tutt’oggi, quando, entrata nel suo “late style” l’età si fa sentire. Non ha ancora risolto completamente il problema della sorella Hanna, che alla fine ha trovato in Viet Nam ( non senza accezioni fiabesche come la doppia collana di pietra alessandrine…). Ma in questa ossessiva tensione al ricongiungimento Hanna le manca e lei la vuole vicino a sé prima della morte.
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Si tratta di racconti, ben scritti, interessanti e a volte anche toccanti, che derivano da studi sul disagio. Le biografie sono molto realistiche e potrebbero essere ricavate da fonti professionali. A pagina 270 ne abbiamo una traccia, laddove la narratrice ci dice:” Un importante psichiatra argentino, amico di Natasha, aveva ottenuto fondi europei per indagare sul disagio femminile nel ceto basso dei paesi sottosviluppati”. Siamo nel periodo delle dittature cilena e argentina e, tra le due possibilità, Natasha segue il ricercatore in Cile, dove, in virtù del fatto di essere straniera, con cittadinanza francese, si trova paradossalmente ad essere più sicura
Molto spesso le protagoniste non sono proprio depressse, ma sono piuttosto donne oppresse dalla depressione altrui. Juana in particolare è vittima della depressione paralizzante di sua figlia e dell’ischemia della madre. Francisca è vittima delle tare di sua madre e di sua nonna, Ana Rosa paga quelle del nonno e la opprimente colpevolizzazione di sua madre ecc. La psicoterapeuta dichiara fin dall’inizio di prescrivere a “quasi tutte” le nove donne sue pazienti un antidepressivo che prendono quotidianamente. Per me i farmaci sono un tema-chiave per una corretta lettura del libro e delle sue storie. E in questa chiave l’ho riletto.
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Alcune statistiche, ispirate criticamante al criterio del disease mongering, ci dicono che il complesso delle major farmaceutiche nel 2005 ha investito più di sessanta milioni dollari solamente per il MARKETING dei prodotti farmaceutici: è quasi il doppio di ciò che si è investito per la loro RICERCA.
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Detto questo, DIECI DONNE , scritto da Marcela Serrano, uscito recentemente per Feltrinelli, è una buona lettura. E per chi ama le donne per ciò che sta dentro di loro e non solo per l’aspetto esteriore, è proprio un peccato perderselo.
(Diez Mujeres – tr. Di Michela Finassi Parolo e Tiziana Gibilisco) - Feltrinelli 2011.