diario di lettura e scritture semiserie by Francesco Boschetto. Brevi recensioni
Uscito in Italia nel Gennaio
di quest’anno e presentato come un romanzo scritto da un’autrice pluripremiata da giurie americane e asiatiche, questo libro mi ha offerto una lettura originale, scorrevole e per certi aspetti
curiosa.
In realtà nella nostra lingua l’autrice è una perfetta sconosciuta. Il suo precedente libro, quello che le ha fatto vincere i premi, non è ancora tradotto e di esso si trovano solo recensioni in inglese, e forse qualche altra lingua orientale. Questo, che da quanto capisco è il suo secondo libro, è perfetto per un sondaggio che possa dare un’idea dell’accoglienza nostrana e anche una misura delle tirature sulle quali attestarsi per le prossime pubblicazioni. Questo vale anche alla luce del tema trattato, ovvero fatti pressochè sconosciuti e di scarso interesse per noi. Però è scritto bene, almeno nella sua prima parte, quella ispirata, e penso che meriti una certa ospitalità nelle nostre librerie domestiche. Io lo metterei nel settore dei libri che si potranno prestare a qualche amica con la quale si vuol far bella figura e mostrarsi sensibili e carini.
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Nella prima metà del secolo scorso, fino alla seconda guerra mondiale, il flusso migratorio giapponese sulla west coast era uno dei tanti. Assieme a cinesi, pachistani, indiani, filippini ecc. anche per i giapponesi valeva il richiamo americano. Venite, giapponesi! È uno dei capitoli più ispirati e ci spiega il flusso delle spose in fotografia, cioè quelle donne, anche giovani ragazze, che si sposavano per procura in Giappone e raggiungevano il loro marito americano conosciuto solo in fotografia. Ciò rispondeva ad una precisa strategia di controllo del flusso migratorio, di cui peraltro l’economia agricola west coast aveva gran bisogno.
La differenza per questo gruppo asiatico rispetto agli altri migranti è saltata fuori dopo, con l’arrivo della guerra. Costoro infatti sono stati tutti evacuati dai paesi e città ove vivevano, e portati al sicuro in centri di raccolta negli Stati interni, oltre le montagne rocciose. Al sicuro? Si, nel senso che la nazione americana, in guerra col Giappone, si sentiva più sicura con i giapponesi isolati e rinchiusi in luoghi speciali. E questo è l’argomento trattato nella seconda e ultima parte del libro. Quella meno ispirata.
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L’impressione che ho ricavato dalla mia personalissima lettura è che questo sia un argomento delicato, una sorta di dato sensibile per la cultura americana contemporanea. E ciò, nonostante siano passati quasi settant’anni. Il libro è del 2011 e l’autrice tratta ancora l’argomento con cautele e perifrasi, come quando si dice ad un ferito grave “va tutto bene” in attesa dell’ambulanza. A pagina 134, quando il testo giunge ad un punto in cui non può fare a meno di dirlo, l’autrice impiega una ventina di righe per far capire senza scriverlo che i giapponesi venivano portati via in maniera coatta e senza preavviso, che a Sacramento c’era una organizzazione appositamente creata per impedire il ritorno dei giapponesi deportati nelle loro case. E tale informazione, nella quale si usa finalmente il termine “deportazione” viene relegata in una nota a piè pagina. Ovvero fuori testo.
Nel 2001, a ridosso dell’11 Settembre, il ministro della difesa Donald Rumsfeld tenne una conferenza informativa nella quale citò le parole usate sessant’anni prima dal sindaco di una città interessata da queste deportazioni. Egli, esortando alla pazienza i cittadini che chiedevano spiegazioni, diceva loro: “Vi faremo sapere quel che potremo, quando potremo… Ci saranno cose che la gente vedrà e cose che la gente non vedrà. Sono cose che succedono. La vita continua.” Eh si. La patria va difesa a tutti i costi.
Il punto è che deportazioni non molto diverse, di massa, sotto coercizione, senza informazione preventiva, senza conoscere la destinazione finale, avvenivano haimè anche in europa negli stessi mesi. E su quei treni speciali c’erano gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali e i comunisti diretti ai campi di concentramento. Tanto in europa quanto negli Stati Uniti vennero usati treni speciali. In questo libro, a pagina 137, l’autrice ci spiega che erano chiamati Treni fantasma e avevano “polverose carrozze passeggeri con locomotive a carbone ecc. passavano per i paesi senza fermate, non fischiavano e viaggiavano solo dopo il tramonto”. E i ferrovieri sapevano che erano pieni di giapponesi.
In pratica questo romanzo narra, come una velata testimonianza, di un piano di deportazione che rasenta il concetto di pulizia etnica. Quelle donne di cui si narra erano cittadine americane, solo che gialle, o meglio gialle giapponesi. Fu pianificata la loro deportazione, la custodia preventiva e coatta per tutta la durata della guerra, al fine di allontanare tutte coloro che vivevano nel raggio di centosessanta chilometri dalla costa. A pagina 103, anche qui fuori testo, in una nota a piè pagina si dà notizia del lavoro svolto tra il 1941 e il 1943 dal Select Comittee to Investigate National defence Migration, organismo ufficiale di indagine per studiare la migrazione interna di coloro che andavano a cercare lavoro nelle fabbriche di armi.
Ora, si tratta di un romanzo. Il frutto artistico di una ottima scrittrice che è riuscita a dire verità scottanti senza turbare la coscienza di nessuno. E lo ha fatto grazie ad una scrittura morbida, delicata e armoniosa che pervade tutta la prima parte del romanzo. E lo fa nei primi, bellisimi quattro capitoli, con una idea di narrazione originale, evidenziata già dal risvolto di copertina.
La voce narrante è “corale” vi si dice. Io più che di narrazione corale parlerei di narrazione plurale, perché in un coro le voci si fondono e perdono l’individualità. Mentre qui, tutte le donne parlano e raccontano contemporaneamente, non c’è mai una sola di loro che narra a nome delle altre, ma ognuna ha la sua specifica esperienza da narrare, unica e personale. Nel secondo, bellissimo, capitolo “Prima Notte” ciascuna consuma l’amore coniugale come nessun’altra, e tutte al tempo stesso vivono la stessa esperienza, quella del primo giorno, anzi la prima notte appunto, del loro sogno americano.
Questo però vale solo per i quattro settimi del testo, quando sono le donne giapponesi a narrare tutte assieme, in una sorta di “noi narrante” collettivo. Poi cambia, il narratore non è più il coro di donne venute per mare, ma le comunità di americani che abitano nei paesi dai quali i giapponesi spariscono. Con le loro domande, le loro ansie e paure.
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L’ho letto senza pensare al tempo che passava e ho avuto l’idea di una continua, fitta pioggia di petali, uno diverso dall’altro. Una pioggia dolce e leggera come lo scorrere delle parole.