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19 marzo 2024 2 19 /03 /marzo /2024 23:22

 

 

 

  • Amigdala. La parola come termine anatomico si riferisce ad una glandola a forma di mandorla che sta dietro alla gola. Mi interessa però la sua variante terminologica che si riferisce al “nucleo amigdoloideo” perché si riferisce alla formazione encefalica in sostanza grigia che si trova nella circonvoluzione dell’ippocampo. Essa è una parte del nostro cervello che funziona come centro di controllo emotivo. È lì  infatti dove trovano origine la paura e l’ansia o addirittura la rabbia. Essa mi interessa perché un recente articolo di Nature sostiene che essa viene stimolata dal fatto di “camminare in mezzo alla natura”, cosa che io faccio due volte alla settimana approfittando della bellezza dei miei luoghi. Si sostiene anche che tale stimolazione avrebbe una effettualità benefica tale da costituire addirittura una cura naturale per il corpo e la mente.

 

 

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18 marzo 2020 3 18 /03 /marzo /2020 23:06

 

 

 

 

La canzone COMUNQUE BELLA di Mogol e Battisti, per “Canto-mandolino o fisarmonica” porta il copyright del 1972. E’ intestata alla Edizioni Musicali ACQUA AZZURRA s.r.l. con tutti i diritti riservati e perciò suppongo che sia finita nel calderone giudiziario che ha liquidato la società l’estate 2019.

E’ nota al grande pubblico come lato B del 45 giri uscito il 24 Aprile 1972 per la discografica Numero Uno, il disco che al lato A propone I giardini di Marzo, canzone vincente, ancor oggi cantata negli stadi italiani. E’ un gioiellino lento dal sapore intimistico che si caratterizza per il colpo di percussioni ad alto volume sul do maggiore che sottolinea la parola “BELLA”, comunque. Si tratta di un colpo emotivo oltreché musicale molto indovinato perché si pone al centro sia della melodia che del testo. La donna cantata è BELLA e ciò basta a risolvere le contraddizioni del rapporto.

La canzone in sé risulta un po’ confusa e incoerente. Il testo ricucisce insieme pezzi di diversa ispirazione, ma unificati appunto dal fatto che descrivono l’esperienza di un riconoscimento della bellezza. Una bellezza resa quasi abbagliante dalla percussione. Il battito dei piatti che accompagna l’esclamazione aggiunge al verso una brillantezza quasi esplosiva e fornisce in una battuta la chiave poetica per tutta la canzone.

Il primo verso “Tu vestita di fiori o di fari in città” evoca un tema mogoliano già noto. La donna può essere infatti la stessa del lato A, ovvero la madre vestita di nero “coi fiori non ancora appassiti” oppure la donna di strada abbagliata dai fari delle auto, quella che torna a casa al mattino quando nessuno ha freddo e la cerca più, evocata l’anno precedente in “Anche per te”. C’è qualcosa di edipico in questa madre puttana, ma ovviamente non è il caso di psicoanalizzare una canzone. Anche perché poi la stessa donna coglie rose a piedi nudi e si mette la sciarpa bianca che, appunto, ne illumina la bellezza. Ora la donna non è più in strada tra la nebbia ed anzi, ha l’arcobaleno negli occhi e nasconde sotto il seno il proprio cuore avvelenato di gelosia.

 

La gelosia è anche la chiave interpretativa del secondo verso nonché di tutta la seconda parte della canzone. Si entra infatti in una dinamica sentimentale tesa e risoluta, dove il confine tra colpa e vendetta diventa labile e incerto e anche la linea melodica si destruttura con l’inserto aritmico delle battute trentasei-trentotto: “anche quando un mattino tornasti vestita di pioggia, con lo sguardo stravolto da una notte d’amore” è sempre l’uomo narrante; ma irrompe la voce di lei (col mitico falsetto di Lucio) “so che capirai … mi spiace da morire sai”. Qui gli occhi sono arrossati, il che lascia supporre il pianto della colpa, ma “quei segni sul viso” cosa sono? Si evoca qualcosa di inquietante: violenza? E da chi? Mah, è la parte oscura del testo. Quel che è certo e che lei mente: nasconde la gelosia dietro una ipocrita dichiarazione d’amore. Per lui, il quale l’accetta subito perché: TU ERI BELLA, COMUNQUE BELLA!

 

                Sappiamo tutti che quando si è presi dall’amore per una donna c’è una parola che riassume più di qualsiasi altra quel turbinoso sentimento. BELLA.

E quasi sempre basta.

 

 

N.b.

L’arrangiamento contiene una piccola sofisticheria mettendo ad ogni conclusione di verso un passaggio modale mentre si trova in sottodominante: si passa dal Fa al Fa minore nella stessa battuta. Si genera una sospensione che prepara l’esplosione del chorus… (bella, bella bella!!). Ancora una volta grazie Lucio!

 

 

 

 

 

 

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18 novembre 2019 1 18 /11 /novembre /2019 15:13

 

 

 

 

 

Scott ha anche diretto il film ALL THE MONEY IN THE WORLD, il quale si ispira alla storia del rapimento del giovane Paul Getty.

Costui era il giovane e dissoluto sedicenne erede dell’uomo più ricco del mondo, ovvero l’omonimo petroliere, ma viveva a Roma senza reddito vendendo chincaglierie a Piazza di Spagna. Fu la ‘ndrangheta calabrese a prenderlo alle 3 di notte del 10 Luglio 1973 all’uscita del Tree Top, vicino all’ambasciata di Francia ovvero lo stesso luogo del rapimento Orlandi che avverrà dieci anni dopo. Egli venne liberato il 15 dicembre dello stesso anno dopo penose trattative con la famiglia culminate col famoso taglio dell’orecchio.

Il riscatto fu di un miliardo e settecento milioni. Un’enormità per l’epoca. E non può essere considerato come un semplice caso di cronaca. Anche qui c’è infatti qualcosa di più …

 

A questo caso Imposimato dedica un capitolo del suo libro L’ITALIA DEI SEQUESTRI, edito da Newton Compton nel 2013. Egli lo considera un caso guida per la stagione successiva dei sequestri italiani ed individua delle anomalie sospette. In particolare la competenza territoriale selettiva che indicherebbe la presenza di qualche manina.

 

La banda dei rapitori era composta da ‘ndranghetisti calabresi che avevano base operativa a Roma per le trattative mentre la prigione era in Calabria. Il nonno Getty, che all’inizio non voleva pagare perché sospettava che si trattasse di una manovra estorsiva interna alla famiglia, incaricò un personaggio del suo entourage petrolifero che era stato anche un abile ex agente della CIA, di condurre la partita in Italia e fu sotto la sua iniziativa che avvenne la consegna del denaro e la liberazione del ragazzo. Tale liberazione che avvenne dopo due giorni dal pagamento, e nel giorno dell’ottantesimo compleanno del magnate, comportò per il prigioniero centinaia di chilometri a piedi con una marcia forzata bendato nella neve prima e un lungo cammino notturno da solo in autostrada poi, sotto un’acqua tempestosa. Il giovane indossava un semplice maglione al momento in cui, annichilito dal freddo, fu trovato da un camionista ma i rapitori gli avevano fornito abiti nuovi e di qualità.  

Tale camminata lo spostò dalla Calabria alla Basilicata ed ebbe come effetto una accorta selezione della competenza territoriale. Venne infatti sottratta ogni competenza alla magistratura di Roma, a quella di Palmi e di Reggio Calabria relegandola al tribunale penale di Lagonegro; ovvero il luogo ove era cessata l’attività dei sequestratori, come prevedeva la legge dell’epoca. “Ciò significa”, osserva Imposimato, “che qualche raffinato esperto giuridico aveva informato i mafiosi circa la competenza territoriale” (pg 46). Tale sede infatti non aveva la preparazione e la dotazione necessaria per tale tipo di attività criminale.

L’episodio del pagamento che era avvenuto due giorni prima, dopo 158 giorni dal rapimento, si era svolto appunto all’uscita Lagonegro della Salerno Reggio Calabria ed era stato attenzionato dalla polizia. Mr. Chace consegnò tre sacchi di juta contenenti il denaro direttamente a tre persone in un terrapieno. La polizia giudiziaria individuò una banda di sedici persone, ma il processo non riuscì a provare il nesso col rapimento e gli accusati vennero assolti per insufficienza di prove.

Soldi spariti e due sole condanne: il proprietario dell’auto usata e un personaggio sorpreso a riciclare pochi soldi provenienti dal riscatto.

 

 

Paul, figlio di alcoolizzati distrutti dalla droga, non ebbe vita felice. Ebbe il figlio Balthazar a diciannove anni, del quale sposò la madre incinta e a causa di questo matrimonio fu diseredato dal nonno. Restò paralizzato nonché semicieco quando, nel 1981, fu colpito da un ictus causato da una miscela di Valium, alcool e metadone in overdose. Passò in carrozzina gli altri due decenni della sua vita e morì in Inghilterra, con la famiglia sfasciata, nel 2011.

 

Il libro di IMPOSIMATO insegna che l’Italia dei sequestri è la stessa Italia delle trame eversive.

Hanno ammazzato Pablo. Pablo è vivo… Da Garibaldi ad oggi, passando per Ippolito Nievo, Matteotti, Portella della Ginestra, Mattei, Piazza Fontana, Moro, Emanuela Orlandi e tanti altri, fino a Capaci, ad Abu Omar e chissà chi altro O, Oh ooh! ancora i tuoi quattro assi bada bene di un colore solo li puoi nascondere e giocare con chi vuoi… o farli rimanere buoni amici come noi… ecc.ecc.

 

 

 

 

 

 

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24 aprile 2014 4 24 /04 /aprile /2014 22:25
Un pensiero al 25 Aprile di mio padre

Penso che per tanti valdagnesi (e non solo valdagnesi ovviamente) il ricordo del 25 Aprile sia un fatto non solo formale, ma un pensiero che passa per la storia familiare. E penso che questo sia in definitiva il senso più autentico di quel ricordo.

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Se capisco bene, (sto guardando appunti sul 25 Aprile a Valdagno) i tedeschi se ne sono andati da Valdagno vari giorni prima che gli alleati arrivassero e ciò ha creato un breve margine temporale in cui il potere locale restò in mano al CLN locale. (in questo caso si tratterebbe dei tedeschi che erano di stanza qui già da due tre anni, il Lehrkommand ecc.)

E’ in questo frangente che Guido Leto, funzionario del Ministero degli Interni della Repubblica di Salò la cui Direzione polizia politica era di stanza a Valdagno, consegna a PERIN, ONGARO (armato) e (Gavasso) l’archivio con tanto di ricevuta. Ma è possibile che tra X°MAS e SS ci fosse già un precedente accordo per nasconderne alcune parti.

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Giovanni Battista Danda fu il comandante della Brigata Rosselli della Divisione Vicenza. Egli il 30 ottobre del 1982 consegnò alla segreteria del convegno: Resistenza veneta 40 anni dopo, promosso dalla Accademia Olimpica, una “Dichiarazione sugli avvenimenti verificatisi a Valdagno nei giorni della Liberazione nell’Aprile del 1945”. In tale dichiarazione, corroborata da altre nove firme di testimoni protagonisti dell’epoca, tra i quali Duilio Ongaro, comandante del Battaglione Valdagno, si sostiene che il giorno 24 Aprile fu il “comando del Battaglione della Rosselli” ad occupare la sede della Brigata Nera servendosi di due pattuglie di partigiani. In tale occasione il comando si impadronì di una grande quantità di armi e munizioni. Nel pomeriggio dello stesso giorno i partigiani della Rosselli occuparono le caserme dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della X°Mas e del ministero dell’interno. Il giorno dopo, 25 Aprile 1945, dal Comando di Piazza con sede nel Palazzo della Gioventù Italiana del Littorio (GIL - oggi Scuola Media Garbin) vennero inviate pattuglie ben armate a presidiare gli stabilimenti Marzotto.

Da ciò si vede che il problema relativo alla sicurezza degli impianti in quei giorni non era legato ai servizi speciali SS di stanza a Valdagno, né ai componenti della X° MAS clandestinamente risiedenti nelle abitazioni cittadine, quanto piuttosto al passaggio delle truppe Wermacht in ritirata dal fronte sul Po. E fu con questi infatti che avvennero i pesanti scontri dei giorni successivi.

Tra i seguaci di Duilio Ongaro c’era anche mio padre, che appare con lui in una foto dell’epoca. I due erano stati prigionieri assieme anni prima sul fronte greco ed erano legati da amicizia e cameratismo (la parola va intesa in senso militare ovviamente, non certo politico).

Purtroppo però mio padre morì troppo presto per rispondere alle cento domande che avrei da porgergli ora. Anche per questo oggi è un giorno importante, un 25 Aprile di memoria e di ammirazione.

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14 aprile 2014 1 14 /04 /aprile /2014 20:00
Omicidio e rapimento Saronio

Quarant’anni fa, durante la primavera del 1974, Potere Operaio si era appena sciolto e cercava una strada nuova per la rivoluzione teorizzando una prospettiva di completa autonomia operaia dai sindacati e dai partiti storici. Al tempo stesso puntava su programmi di vera e propria “lotta armata” per guidare militarmente una ipotetica insurrezione di massa. Occorrevano però molti soldi e ai vertici padovani si decise di puntare all’autofinanziamento. Carlo Casirati, in arte Antonio, rapinatore professionista, evase dal carcere e si fratturò un tallone. Venne contattato da Oreste Strano (addestrato alle armi), che lo fece curare riservatamente a Padova ospite di Negri. Si stabilì così, secondo le ricostruzioni ufficiali, un sodalizio politico criminale che portò a vari tentativi di rapina per autofinanziamento tra i quali la famosa rapina di Argelato, tra Modena e Ferrara, con la morte del carabiniere Andrea Lombardini.

Ma l’azione più clamorosa arriverà il 14 Aprile 1975 quando “Casirati e soci, travestiti da carabinieri rapiscono l’ignaro Saronio, sbagliano la dose di toluolo usata per stordirlo e lo uccidono. Fingono che sia vivo, ottengono dalla famiglia un riscatto di 470 milioni.” (Michele Sartori, in TERRORE ROSSO, Ed. LATERZA)

Fioroni, dirigente della componente militare di Autonomia Operaia Organizzata, verrà arrestato in svizzera nel tentativo di riciclare soldi del sequestro. Egli confesserà facendo arrestare Casirati. Costui poi rivelerà il luogo dell’occultamento del cadavere, che verrà ritrovato nel 1979, beneficiando dei relativi sconti di pena.

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Morto per overdose di toluolo, Carlo Saronio era ricercatore presso l’Istituto Mario Negri e proveniva dalla famiglia proprietaria della Carlo Erba. Era stato simpatizzante di Potere Operaio e frequentava gli ambienti stessi dei suoi rapitori. La stampa per semplificare usò sempre il termine “cloroformio” come causa della sua morte. Io usavo toluolo in fabbrica, ebbi un principio di intossicazione, seppur leggera, e iniziai a curiosare nella letteratura sul rischio chimico. Fu una premessa del mio successivo impegno sindacale.

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31 marzo 2014 1 31 /03 /marzo /2014 13:28
Depistaggi

Il Fatto Quotidiano e gli altri principali quotidiani nazionali di Lunedì 24 Marzo 2014 uscivano tra il clamore dei Tg di prima serata, con la notizia secondo la quale si sarebbero improvvisamente rese disponibili nuove verità sul caso Moro. Tale notizia, peraltro oggi già scomparsa anche dalle pagine interne, chiamava in causa i servizi segreti italiani come “doppio stato”, ovvero entità tali da agire per conto dello stato, ma contro la verità e la giustizia, manipolando anche i suoi apparati come Polizia e Magistratura.

Nelle pagine interne alcuni articoli di approfondimento, anche nei due tre giorni successivi, spiegavano che l’ex agente Enrico Rossi oggi in pensione sosteneva di aver di fatto partecipato all’agguato di via Fani essendo uno dei due passeggeri della moto Honda presente sulla scena della strage il 16 Marzo, di cui si ha riscontro negli atti parlamentari e giudiziari, ma ciò nonostante sempre ignorata nelle ricostruzioni ufficiali. Da tale moto Honda sarebbero anche partiti quella mattina stessa dei colpi di pistola alcuni dei quali avrebbero raggiunto il parabrezza di uno dei testimoni anch’egli agli atti.

Certo. I servizi segreti erano presenti, informati e guardinghi. Sapevano dove si trovava Moro durante la prigionia e non son per niente estranei alla sua uccisione. Ma il taglio inaspettato di questa notizia sta nelle precise affermazioni che la corredavano, secondo le quali “i servizi coprirono le Br in via Fani”. Tutto ciò scritto in prima pagina… Bene, prosegue il processo, peraltro lentissimo, di rivelazione della verità. Ma perché? Per amore della Giustizia? Si, anche per quello, ed è il caso a mio avviso di personaggi che si battono alla grande, come Imposimato, per ottenere la verità sugli anni di piombo, ma ci sono anche ragioni tattiche riconducibili alla attuale ragion di Stato.

La sciamo perdere le nomine. Oggigiorno per nominare un nuovo capo della Polizia occorrono almeno un paio d’anni di piani segretissimi e di ricatti e controricatti sui direttori di vari giornali e Tv; lasciamo perdere anche le perenni richieste dei familiari delle vittime: ci sono sempre gli intoccabili da proteggere. Inoltre Lunedì scorso c’era anche Obama in arrivo, e non era male ricordargli che c’è ancora qualche debito di verità da saldare.

Ma c’è soprattutto la nomina del prossimo segretario generale della NATO il quale potrebbe essere italiano. E prima che un italiano possa mettere le mani in qualche cassetto è bene iniziare a proteggere i segreti ancora sensibili. E la tecnica migliore per tenere segreta la verità è quella di circondarla di formidabili falsità credibili. Si tratta di false piste coi fiocchi ovviamente, capaci di attirare l’attenzione dei giornalisti investigativi per anni interi. E’ il DEPISTAGGIO.

Di questo tipico fenomeno della politica italiana se ne è occupata recentemente Benedetta Tobagi nel suo libro appena uscito sulla Strage di BRESCIA.

Tobagi parte dal quadro di Magritte, del 1927, che si trova al MoMa di New York: “L’assassino minacciato”.

Poi ci ricorda che è una parola tutta nostra, poco traducibile. In inglese può essere ricondotta a “misleading” il cui significato è similare, ma non ha alcun eco poliziesco. Insomma in Italia il depistaggio è un crimine, ma non è un reato.

Nel caso della strage analizzata nel libro esso comincia con il lavaggio di Piazza della Loggia, che impedì la raccolta delle tracce di esplosivo impedendone in tal maniera una sicura identificazione. Anche il tempo, la lunghezza dei processi, agisce come fattore di depistaggio. In questo caso il testimone don Gasparotti non fu più in grado dopo tanti anni di riconoscere il giovane terrorista che si nascose in chiesa bruciando l’alibi di Ferri che venne da Milano. Nel caso di Piazza Fontana l depistaggio fu la pista anarchica e Valpreda. Esso è spesso indimostrabile perché fatto di una serie di piccole omissioni, imprecisioni ecc.

Depistaggio a Peteano

Ma il depistaggio più efficace è stato quello messo a punto dal Generale dei carabinieri Alta Italia Palumbo nel caso della strage di Peteano avvenuta il 31 Maggio 1972. Fin dalla serata del funerale Palumbo nominò alla presenza di Rumor, il colonnello dei CC Dino Mingarelli, (già esperto in segreti di stato in quanto estensore del Piano Solo nel 1964). Così tagliò fuori i carabinieri di Udine che avrebbero avuto la competenza e la motivazione per fare indagini vere. Costui indirizzò le indagini verso una pista rossa e poi verso delinquenza comune, poi a Ottobre ricevette le informazioni fornite da Giovanni Ventura che già collaborava segretamente in carcere e indirizzavano nella giusta direzione, ma ovviamente non le usò. La strage sarebbe rimasta impunita se non fosse arrivato il pentimento “politico” di Vincenzo Vinciguerra. Costui dopo anni di militanza nella destra internazionale resosi conto della strumentalizzazione che veniva fatta sulla estrema destra (i CC non collaboravano con loro, fornendo gli esplosivi e i NASCO stay behind per la rivoluzione, ma per la stabilizzazione politica) iniziò una serie di rivelazioni che portarono la polizia giudiziaria a scoprire che i CC di Mingarelli avevano depistato alla grande giungendo al punto di nascondere le prove come i bossoli. E Mingarelli e il suo secondo, il capitano Chirico vennero condannati, ma era il 1987.

Altro uomo chiave di quel depistaggio fu Marco MORIN, esperto esplosivista militante di Ordine Nuovo già condannato nel 1966 per deposito d’armi illegale con Elio Massagrande e Marcello Soffiati. Costui viene incaricato della perizia sull’esplosivo trovandosi così di fatto ad indagare sui suoi vecchi camerati. Egli contaminò le prove col Semex-T, esplosivo cecoslovacco già trovato in possesso delle Br. Il contaminante lo trovò facilmente perché veniva da altre perizie.

Fu un’ottima intuizione, un depistaggio da artista perché in tal modo venne protetto il segreto dei segreti ovvero il tipo di esplosivo usato da Vinciguerra (sottratto da stay behind alla NATO e destinato agli ustascia) e al tempo stesso si depistò sui rossi scatenando la polizia addosso a loro.

La ricostruzione si trova nell'ultimo libro di Benedetta Tobagi.

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5 ottobre 2013 6 05 /10 /ottobre /2013 14:11
La Mostra: Vita di San Francesco

La parrocchia di San Paolo a Novale di Valdagno ha allestito una mostra dedicata alla Vita di S. Francesco di Assisi. Essa propone gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi in una loro brillante riproduzione fotografica affidata ad altrettanti riquadri in scala 1:4. La mostra è realizzata da Giorgio Deganello che ha curato il progetto e le fotografie.

I 28 affreschi della famosissima Basilica Superiore vengono esposti in un ambiente ricreato in scala ridotta con proporzioni e disposizione realistica. E’ un piacere oltreché una grande comodità poterle vedere sotto casa, in piccoli gruppi da 25/ 30 persone sotto l’effetto affabulante di guide preparate.

L’Università degli Adulti Anziani di Valdagno ha organizzato due visite guidate riservate ai corsisti, il primo appuntamento è stato Mercoledì 2 Ottobre 2013 alle 15:30 davanti alla Chiesa di Novale. La professoressa Annalisa Castagna ha accompagnato con le sue illustrazioni i corsisti visitatori soffermandosi sui significati storico artistico-religiosi dei vari affreschi. Un approfondimento particolarmente esaustivo è stato anche reso possibile per gli interessati, grazie al dotto saggio curato dalla professoressa Rossella Lora del Liceo Trissino.

La leggenda di san Francesco, oltre ad essere un tema affascinante e attuale per il cosiddetto “effetto Bergoglio” che ha scelto proprio tale santo come riferimento e nome per il suo papato, è famosa in tutto il mondo grazie al ciclo giottesco con le sue storie magistralmente raffigurate in affreschi rettangolari di grandi dimensioni. Esse fanno parte, assieme alle colonne tortili e alla trabeazione, della navata basilicare di Assisi e costituiscono un unico racconto della vita del santo, che ha come fonte il testo della Legenda Maior scritta da San Bonaventura nei primi anni sessanta del tredicesimo secolo.

Francesco d’Assisi è un personaggio rappresentativo delle tensioni e delle passioni che attraversarono la sua epoca divenuto poi santo tra i primi e più importanti della Chiesa Cattolica. A tutt’oggi è anche patrono d’Italia nonché punto di riferimento per il messaggio di povertà e rispetto del creato che la sua leggenda richiama. Lo scorso anno Massimo Cacciari, filosofo e politico di gran fama, se ne è occupato nel su libro “Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto” edito da Adelphi.

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