Alla fine della guerra civile contro i russi bianchi controrivoluzionari, sconfitti dall’Armata Rossa creata e diretta da Trotzkj, viene fondata l’Unione Sovietica. E’ il 30 Gennaio 1922. In quel periodo Lenin si ammalò e dovette combattere la malattia per due anni. Sempre in quel periodo egli scrisse anche brillanti pagine di analisi oltre al famoso testamento politico nel quale manifesta freddezza verso Stalin. La sua parabola mortale non è ancora chiara, coperta da molti decenni di retorica, ma in epoca post perestroika sono emerse foto e documenti impressionanti.
Fu quasi certamente un ictus a causare l’inizio della sua malattia mortale. Ma la sua è una morte senza diagnosi. Verso Alla fine dei suoi giorni, nel periodo delle foto volute dalla sorella, Lenin non era in grado di farsi capire. Emetteva suoni incomprensibili ed era già paralizzato. Morì Il 21 Gennaio del 1924.
Prima della sua morte per la diagnosi del suo stato vennero fatti pervenire, tra varie difficoltà, dei luminari dalla Germania i quali parlarono di alzaimer e sclerosi multipla. Essi valutarono seriamente anche la possibilità di un’intossicazione da piombo causata dai proiettili sparati da Fanni Kaplan nel 1918, ma senza giungere ad una conclusione definitiva.
Tra gli storici trotzkisti fu popolare la tesi che Lenin fosse stato avvelenato da Stalin ma secondo alcune analisi storiografiche all’epoca Stalin non avrebbe ancora avuto il potere di ordire un simile complotto. I bolscevichi fecero in modo che venisse tacitata ogni diceria circa una morte causata da sifilide ma anche questa è una possibilità. Il diario della sorella Maria Ulianova, nel quale costei si confida convinta della sifilide, venne tenuto segreto.
A tutt’oggi un’opinione attendibile rimane quella dell’accademico delle scienze mediche Jurij Lopuchin il quale riconduce tutto ad una occlusione nella carotide interna sinistra di Lenin nella parte intracranica e scrive che: L’arteria si era trasformata in un solido canale biancastro e denso. Ciò sarebbe compatibile con l’idea di un lento avvelenamento da piombo. Le pallottole che erano state sparate dalla Kaplan il 30 Agosto del 1918 non erano infatti mai state tolte ed una di esse, vicina all’arteria, venne estratta dopo la morte.
E’ possibile quindi che Lenin sia morto per le conseguenze dei proiettili o per la sifilide. In ogni caso il suo cervello tagliato a fette è ancora disponibile.
Spero che in vista del centenario della sua morte venga fatta chiarezza; ma prima scade il centenario della nascita dell’Unione Sovietica, e questo, nel bene o nel male, non è certo un fatto trascurabile nella storia Russa.
LiMes di dicembre 2020 chiude l’anno dedicando l’analisi al virus, ovviamente. Non so se per confermare l’adesione al mainstream mediatico e star fuori dalle polemiche o per tentare una sorta di bilancio.
Il numero però è chiuso da un articolo che ci aggiorna su uno dei temi che hanno caratterizzato l’annata politica di Macron ovvero i rapporti della Francia con l’Islam domestico. Nell’Ottobre scorso alcuni gravi episodi di violenza hanno rianimato l’interesse della società francese per questo tema. La decapitazione di un insegnante e la sparatoria contro fedeli cattolici dentro una chiesa ha offerto alla TV qatarina Al JAZEERA l’occasione per una intervista al presidente dell’Eliseo per fare il punto su tali problematici rapporti. Essi infatti si aggravano sempre più e nella intervista Macron stesso parla di “contro-società islamiche”.
Si tratta della minoranza musulmana francese che ammonta ormai a sei milioni di residenti, ovvero l’8% della popolazione. Sono strati di popolazione che derivano da varie ondate di immigrazione, storiche e recenti, principalmente dall’Africa sub-sahariana, dall’Algeria e dal Marocco. Essi, anche se residenti da più di una o più generazioni sono malamente integrati nelle banlieau e lamentano discriminazioni di vario genere che sarebbero da attribuire al loro retroterra etnico e religioso.
La Francia istituzionale è consapevole del problema e fin dai primi anni novanta ha avviato una politica di ricerca della convivenza agendo sul fronte amministrativo. Sono state create due istituzioni che hanno il compito precipuo di organizzare la rappresentanza musulmana. Esse sono Il Consiglio Francese della Fede Musulmana e la Fondazione dell’Islam di Francia. L’azione gode del sostegno diplomatico anche di Algeria, Marocco e Turchia, ma le tensioni geopolitiche non sempre aiutano. Queste politiche di integrazione sono state anche accompagnate da altre misure come il divieto del velo nei luoghi pubblici.
Nonostante questi tentativi le tensioni nel rapporto con l’Islam si sono aggravate e negli ultimi cinque anni le vittime civili degli attacchi messi in atto da gruppi terroristici islamisti sono diventate quasi trecento.
Macron quindi ha maturato la convinzione di dover intervenire per la sicurezza civile e sta adottando un orientamento che si fonda sull’idea di separare l’Islam dall’islamismo. L’articolo di LiMes definisce “manicheo” questo approccio che però è approdato ad una proposta di legge sul “separatismo” islamico. Essa prevede un forte regime di controllo delle moschee e delle organizzazioni culturali sospettate di diffondere l’odio e l’istigazione alla violenza, nonché la repressione delle pratiche come la “separazione dei sessi” e la “scolarizzazione domestica”.
Le nuove misure contemplano l’idea di bloccare l’afflusso di imam provenienti dall’estero, assegnando invece al Consiglio il compito di formarli in Francia. Il Consiglio stesso ha accettato l’idea e sta lavorando per costruire un accordo con le comunità islamiche. La Fondazione per l’Islam di Francia verrebbe invece finanziata direttamente dal governo francese per organizzare piani di studio islamico nelle università e la creazione di una cattedra di islamologia. E’ l’dea di un “Islam dei Lumi” che verrebbe distillato negli studi accademici in aperto contrasto con l’islamismo radicale, il cui insegnamento verrebbe represso (anche nelle moschee e controllando la predicazione degli Imam).
Si tratta di una sfida non semplice e tutta da verificare. Ma è un’ipotesi interessante nel medio/lungo periodo per un’Europa avanzata, tollerante e pienamente capace di convivenza multietnica.
Sara Loffredi, nata a Milano nel 1978 è la giovane autrice del romanzo che in 150 pagine precise ed efficaci racconta l’epica vicenda del cantiere e dei lavoratori che realizzarono il traforo del Monte Bianco tra il 1945 e il 1965. Venne abbattuto il diaframma storico tra Italia e Francia con un successo ingegneristico e un lavoro montanaro epico che si concluse con le solenni strette di mano del 14 Agosto 1962 tra Georges Pompidou e Amintore Fanfani. Fu un momento di orgoglio e soddisfazione per le genti e i sindaci di Courmayeur e Chamonix.
La casa editrice Mondadori pubblicò nel 1967 il libro di Piazzo e Guichonnet che ricostruì la storia, mentre il libro di Piero Alaria, protagonista del romanzo oltre che dell’impresa, pubblicato nel 1976 a cura del Collegio dei geometri di Torino e di provincia, fornisce tutta la documentazione tecnica e la narrativa memorialistica a partire dalle operazioni topografiche per il tracciamento della galleria relativa al periodo 1946 – 1965.
Gli aspetti più suggestivi dal punto di vista romanzesco sono legati alla montagna, al cammino e alla forza del lavoro umano, impegnato in quello che si rivela essere sempre più un fronte di scavo drammatico e pericoloso la cui sfida è anche interiore. Il romanzo, umano come solo chi soffre sa narrare, è frutto di realtà e di invenzione, ma in entrambi i casi offre al lettore una emozionante lezione.
UN’ALTRA PARTE DEL MONDO, di Massimo Cirri. (Feltrinelli 2016)
Il giornalista Massimo Cirri, noto soprattutto per la trasmissione radiofonica Carterpillar su Rai Rdio2 è anche psicologo ed ha esercitato per 25 anni nei servizi pubblici di salute mentale. E’ un curriculum che fa di lui un eccellente testimonial per la biografia di Aldo Togliatti, il figlio del Comunista che ha diretto la Terza Internazionale e costruito, con grande senso unitario, la Repubblica Italiana con il più grande partito comunista dell’occidente.
Cirri sa scrivere come Palmiro Togliatti sapeva far di politica e ne esce un libro denso di 350 pagine il cui sfondo è la storia di buona parte del secolo scorso. Il tutto con un grande senso di rispetto e comprensione per quei protagonisti e con un notevole amore per il dettaglio e la compostezza narrativa.
Aldo Togliatti è cresciuto in Russia e, purtroppo, schizoide/autistico, è rientrato in Italia senza mai rassegnarsi. In Russia aveva studiato come ingegnere ed aveva sofferto dell’abbandono per due anni del padre e della madre durante la guerra di Spagna. Ciò era avvenuto proprio negli anni dell’adolescenza ed aveva lasciato il segno.
La madre era Rita Montagnana una piemontese di famiglia ebraica che era stata chiamata da Gramsci a fare la funzionaria fin dai primi anni del Pcd’I. Poi aveva conosciuto e sposato Togliatti condividendone il periodo russo nonché le varie vicende rivoluzionarie europee ed era rientrata in Italia nella primavera del ’44 riprendendo un importante ruolo nel PCI, fondando l’UDI e partecipando alla Assemblea Costituente. E’ una delle sole 11 donne comuniste italiane che hanno frequentato la Scuola Leninista Internazionale di Mosca che era praticamente l’università mondiale della rivoluzione proletaria (il MIT del comunismo mondiale dice Cirri).
La vita di Aldo è però il contrario di quella genitoriale. Egli fu un uomo di bell’aspetto, fisicamente sano, somigliante al padre, conoscitore di varie lingue, ingegnere russo, colto lettore ma anche “timido prima, e poi man mano, sempre di più, introverso, silente, recintato in sé, al margine e poi fuori dal mondo e dalle relazioni.” (Cirri 338)
Come è noto e risaputo Togliatti padre tornato in Italia iniziò una relazione duratura con la giovane comunista Nilde Iotti con la quale negli anni cinquanta adottò una figlia, Marisa Malagoli Togliatti, e nel senso comune degli italiani è questa la famiglia del grande leader comunista. Nel 1948 al momento dell’attentato, Palmiro Togliatti giacente a terra colpito consegnò la borsa dei documenti alla Iotti finché sopraggiungevano i soccorsi dicendole due cose: chiama Aldo e consegna la mia borsa a Longo. Fu Aldo a stare amorevolmente nella stanza del padre ferito mentre alla Iotti fu inizialmente negata la possibilità di entrare e Rita Montagnana, a tutti gli effetti ancora moglie legale, stette sempre sulla soglia della stanza. Ma la storia matrimoniale era già finita e più avanti quando Rita concluse la propria storia parlamentare Aldo visse con lei. E quando Rita morì la sua patologia si era già aggravata e Aldo finì nella clinica Villa Igea di Modena ove trascorse senza storia gli ultimi trent’anni della propria vita. Ci fu sempre il discreto aiuto della famiglia e del Partito ma Aldo venne accantonato e, dal senso comune, dimenticato.
Ma non è una storia triste, è solo la vita reale, senza drammi e il libro di Cirri indaga bene il rapporto tra il padre e il figlio che ne esce assolutamente umano, con un Palmiro assolutamente degno dello spessore che la storia gli ha affidato, una madre Rita rivoluzionaria professionale di alto profilo e un Aldo che ha saputo fare della sua sofferenza un ammirevole modello di discrezione.
E’ stata una bella lettura che, nonostante alla mia età fossi convinto di sapere già tante cose, mi ha dato molto. Complimenti all’autore e un pensiero dolce a tutti gli Aldo della storia.
Parla l'economista Stefano Zamagni: "Va trasformata, in primo luogo, la finanza, che non agisce più in funzione delle esigenze di benessere delle persone e dei popoli perché è diventata autoreferenziale e funzionale solo per se stessa o per alcuni. In secondo luogo, vanno riformate le regole che governano la globalizzazione".
"Il modo in cui organizziamo oggi i nostri sistemi economici ha bisog
Un soffio potente sceso dall’Irlanda, capace di scuotere molte cose nella Chiesa e nella società. Così il benedettino Adalbert de Vogüé, grande studioso delle origini del monachesimo, descrive la figura di San Colombano, la cui festa liturgica si celebra il 23 novembre. La fierezza e il carisma dell’abate irlandese riecheggiano ancora oggi in questa Europa disorientata e hanno attratto don
Nell’estate 1956 io avevo cinque anni. Mio padre e mia madre vivevano sani e felici in una Valdagno che festeggiava il raggiungimento del titolo di città, il monumento a Marzotto e le speranze legate all’avvio del miracolo economico. In realtà due anni prima c’erano stati 138 licenziamenti per esubero di personale.
A Recoaro invece le stagioni turistiche termali erano in auge e richiamavano gente da tutta Italia. Si organizzavano frequentemente gite in pullman fino all’Ossario del Pasubio per mostrare la bellezza delle Piccole Dolomiti e tra queste, quella di Sabato 11 settembre 1956, che si concluse col pullman nell’abisso.
Il fatto
Alle 15:45 in località Boal de la Bante il vecchio pullman rosso tipo Leoncino a suo tempo collaudato per 23 passeggeri, ne trasporta 27 verso l’Ossario del Pasubio ma durante una sosta precipitò nella scarpata per 135 metri causando 15 morti e vari feriti nei cinque successivi, drammatici colpi d’impatto della caduta.
Il giovane autista Giuseppe Girotto verrà condannato il 20 Luglio 1957 a cinque anni e 4 mesi, confermati in appello, con l’accusa di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime. Il risarcimento dei danni ammontava a 14 milioni di lire e fu a carico dell’autista nonchè della ditta di autotrasporti. Venne invece assolta l’Azienda Turistica che aveva organizzato la gita, facendo regolarmente pagare 700 lire al biglietto.
Cause e dinamica dell’incidente.
Piovviginava e l’autista accostò per tergere l’appannamento del cristallo. Non riuscendo completamente a farlo dall’interno ed essendogli caduto il panno egli scese per recuperarlo ma non riuscì più a salire perché nel frattempo il movimento indietreggiante del pullman aveva innescato il panico tra passeggeri che ostruivano l’unica portiera.
Le perizie dimostrarono che il pullman, un po’ vecchiotto ma con 85.000 Km, oltreché essere sovraccarico aveva il freno a mano inefficiente, le gomme consunte all’80% e il tergicristallo rotto. Il conducente sostenne di aver spento il motore e innestato la retromarcia nonché girato le ruote a monte, ma la perizia smentì questa ricostruzione trovando innestata la terza marcia e giunse alla conclusione che concomitanza di marcia alta, freno difettoso e forte pendenza (13%) causarono la messa in movimento del pullman. Il mezzo cadde all’indietro abbattendo anche un muretto stradale e con l’autista aggrappato alla portiera col piede sul predellino.
Il mistero del cambio
La tesi difensiva dell’autista, che era figlio del capo dei vigili urbani della città di Valdagno, era di aver rispettato tutte le misure di sicurezza del caso compreso l’innesto della retromarcia a motore spento e che l’asta del cambio a suo dire era stata spinta in folle durante il trambusto delle persone accalcate nel tentativo di scendere. Ma la perizia accertò che durante la caduta la marcia innestata era la terza e che non sarebbe risultato possibile lo sblocco della marcia senza l’uso della frizione per l’esistenza di un dispositivo apposito montato in serie. La questione del cambio non fu mai chiarita e alcune testimonianze avvallarono in parte la tesi del Girotto secondo la quale qualcuno dei passeggeri era intervenuto sul posto di guida.
I soccorsi
La comitiva non era composta solo dalle 27 persone sul pullman, c’erano anche altri passeggeri in due taxi che seguivano. Constatata la tragedia uno di questi si recò a dare l’allarme presso il custode dell’ossario il quale chiamò i carabinieri che furono i primi a raggiungere il luogo. Le vittime furono soccorse dalle autoambulanze dell’epoca con l’aiuto del soccorso alpino e furono trasportate anche all’ospedale di Valdagno durante le varie ore del pomeriggio. Tra i soccorritori Gino Soldà che collaborò al trasporto manuale dei feriti uno dopo l’altro a partire dai più gravi. Per ultime le salme fino a dopo il tramonto e nel giorno successivo, distribuite lungo tutto il percorso della caduta, anche in cima agli alberi.
L’autista non si trovava perché si era dato alla fuga e le ricerche furono inutili. Egli si costituì alle forze dell’ordine due giorni dopo dichiarando di aver vagato per boschi e malghe come un fantasma.
Il primo bilancio comunicato alla stampa fu di nove morti, ma presto giunsero a 14. Tra di essi una coppia di sposi in viaggio di nozze trovati abbracciati tra le lamiere accartocciate. Infine l’anziana marosticense Caterina Minuzzi che, seduta accanto al posto di guida era stata la prima a scendere dal pullman, morì successivamente presso il nosocomio di Valdagno e fu enumerata tra le vittime portando il totale a 15.
Una bambina veronese di nome Asia si salvò, ma perdendo i genitori.
Nel secondo semestre del 2019, cioè a cinquant’anni da Piazza Fontana, è uscito ITALIA DELLE STRAGI edito da Donzelli. Il libro, curato da Angelo Ventrone, raccoglie una serie di articoli scritti da giudici impegnati in vari processi delle trame nere e nel suo insieme sistematizza tutte le vicende eversive 1969 - ’80.
Personalmente ho trovato molto utili gli scritti di Calogero e Tamburino i quali permettono una lettura che ritengo conclusiva del periodo che ha caratterizzato l’attacco neofascista in Italia. Essi affrontano infatti le vicende fondamentali di quegli anni ovvero Piazza Fontana, il tentato golpe Borghese, le stragi di Peteano e quella della Questura di Milano nonché l’inchiesta sulla Rosa dei Venti. L’analisi poi prosegue su Piazza della Loggia, il golpe bianco e l’Italicus per approdare alla Strage di Bologna del 2 Agosto 1980.
Ventrone è un docente di storia contemporanea che si era già occupato nel 2018, assieme a Carlo Fumian di terrorismo europeo, ma l’approccio del saggio è sostanzialmente tutto rivolto all’interno dei confini nazionali. Ciò riflette l’ottica tipica del magistrato il quale, a differenza dello storico, si muove all’interno della dottrina e della giurisprudenza cogenti delimitandone i riscontri. Calogero per la verità produce una analisi di quei trattati che vincolano l’Italia limitandone la sovranità e quindi ci offre un’ottica meno ristretta, ma quando poi si parla della Stazione di Bologna lo sguardo extranazionale scema definitivamente.
Ciò costituisce il limite strutturale del libro che però ci offre il saggio finale di Claudio Nunziata sulla continuità dell’azione golpista nella seconda parte degli anni settanta. Nunziata è stato giudice nelle inchieste dei processi Italicus bis e rapido 904 dopodiché, ritiratosi, è diventato il consulente della associazione delle vittime della Strage di Bologna. Le sue preziose consulenze hanno permesso la ripresa delle ricerche sui mandanti del 2 agosto 80 con l’avvio dell’ultimo procedimento.
Un libro prezioso da leggere e consultare.
Alcune note
Tutte e stragi che hanno insanguinato l’Italia dal 1969 ad oggi appartengono ad una unica matrice organizzativa. C’era una struttura da cui partivano le direttive e i militanti di estrema destra cui essa attingeva dovevano eseguire. Tutto ciò con l’obiettivo di destabilizzare l’ordine pubblico al fine di stabilizzare il sistema politico. Scatenare la rabbia del popolo per usarla nella repressione e rafforzare lo stato e chi lo controlla nell’ambito delle alleanze occidentali. Un piano di azione diretta sotto copertura dove l’azione è affidata ai civili reclutati e la copertura agli ufficiali del controspionaggio e dell’ordine pubblico.
La strage di Peteano è l’unica non riferibile alla pianificazione della struttura, ma egualmente coperta. E perciò rientrante nella medesima strategia. E’ l’elemento copertura e depistaggio a collocarla all’interno della strategia della tensione. Fin da pochi giorni dopo l’atto criminale infatti il gruppo investigativo che si impadronì delle indagini operò “una serie di falsità in atti pubblici finalizzate al favoreggiamento personale del gruppo ordinovista responsabile della strage” (pg 67) Col loro intervento la matrice neofascista della strage fu coperta per 12 anni.
Il generale del CC Palumbo morì prima della sentenza
E’ quello che sostiene Vincenzo Vinciguerra secondo la ricostruzione di Calogero pubblicata a cura di Angelo Ventrone nel libro L’ITALIA DELLE STRAGI Donzelli editore 2019.
E' da notare anche la netta differenza di interpretazione tra Wladimiro Satta e Pietro Calgero sui fatti di Peteano. Per il primo le argomentazioni e il movente dell’agnizione di Vinciguerra sono dubbie. Inoltre l’attentato appartiene alla storia del neofascismo mentre le coperture appartengono alla guerra fredda. I funzionari agirono con solerzia per proteggere Stay Behind e la vicenda ebbe successivamente esiti soddisfacenti anche come “punizione” (no condanna) per depistaggio.
Per Calogero invece Casson, all’indomani delle rivelazioni di Andreotti, identificò subito Gladio nella struttura evocata da Vinciguerra ed incolpò quest’ultimo di aver sottratto ed utilizzato l’esplosivo di Aurisina (Nasco) per l’attentato in tal modo sottraendo Gladio dal sospetto di stragismo.
Vinciguerra impugnò l’impianto di tale accusa rivelando inoltre, ciò che poi fu accertato, ovvero che l’esplosivo utilizzato era stato rubato in una cava.
Molto interessante ed atipica l’osservazione di Calogero quando dice che la copertura essendo scattata post delictum implica il riconoscimento del carattere neofascista della strage e la volontà di preservare la capacità di lotta del gruppo contro il pericolo comunista; risorsa che altrimenti sarebbe andata perduta in caso di costrizione con il carcere a vita.
Per me ciò spiegherebbe perché Vinciguerra, in una ottica di piena coerenza con l’obiettivo di sottrarsi alla strumentalizzazione del sistema, abbia agito per ottenere e non per evitare la condanna all’ergastolo. Inoltre l’approccio di Casson potrebbe essere stato concepito in un’ottica di salvaguardia di Stay Behind …
La recente morte dell’ottantenne Charles Richard Webb, scrittore americano trasferitosi in Inghilterra dopo il successo del libro The Graduate dal quale è stato tratto il film Il Laureato, mi ha rimotivato alla lettura di quel libro.
Di seguito riporto gli spunti tratti dall’articolo di John Leland sul New York Times del 2 Luglio 2020 e alcune mie considerazioni su testo e sul film.
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Charles Webb, scrisse The Graduate del 1963 e poi spese decenni a fuggirne il successo. Questo romanzo fu reso famoso dal posteriore successo del film Il Laureato; uscito nel 1967 con la regia di Mike Nichols, l’interpretazione di Dustin Hoffman e Anne Bancroft nonchè le altrettanto famose canzoni di Simon e Garfunkel in colonna sonora.
Webb è morto in Inghilterra, East Sussex, lo scorso 16 Giugno all’età di 81 anni. Un portavoce del figlio John ha confermato la morte, avvenuta in ospedale senza però specificare le cause.
Il suo romanzo, che è stato scritto poco dopo il college e si basa in gran parte sul suo rapporto con la moglie Eve Rudd, fu trasformato in un film che segnò un’era. Esso diede infatti voce al rifiuto del materialismo di una intera generazione di giovani. Le persone reali alle quali si ispira quella storia sono Charles Webb e Eve Rudd i quali, sposatisi nei primi anni sessanta, protrassero tale rifiuto ben oltre la giovinezza scegliendo di vivere in povertà e regalando via qualsiasi somma provenisse dal successo di quel libro. Un successo che peraltro continuò per molto tempo ad inseguirli.
“La mia intera vita è stata misurata da esso” disse lo stesso Webb al Telegraph nel 2000, quando la coppia viveva col sussidio dei servizi sociali.
Non ha mai voluto soldi. Aveva con essi un rapporto anarchico e nella vita ha dato via case, quadri, la sua eredità e anche le royalties dei Iibri. Per fare un esempio assegnò una sua spettanza di 12.400 dollari ad un artista di spettacolo di nome Dan Shelton, che si era domiciliato presso la Tate Modern, in una scatola di cartone.
Si sposò due volte con la stessa donna, che è appunto Eve Rudd. La prima nel 1962 cui seguì il divorzio nel 1981 per protestare contro l’istituzione del matrimonio. Successivamente i due, che nel frattempo avevano continuato a stare assieme, si risposarono nel 2001 per regolarizzare la loro immigrazione in Inghilterra. E in tale circostanza egli non regalò nessun anello alla moglie per via della propria disapprovazione per la gioielleria. L’unica testimone di quell’evento ad eccezione di due sconosciuti tirati fuori dalla strada, è la Signora Downey, la quale racconta che la coppia ha camminato per nove miglia fino all’ufficio del Registro dov’è avvenuta la cerimonia, indossando gli unici abiti che possedevano.
Charles Richard Webb era nato a San Francisco il 9 giugno 1939 e cresciuto a Pasadena, in California. Suo padre, il medico Richard Webb, era un cardiologo specialista che faceva parte di un circolo benestante come quello che Webb avrebbe poi attaccato nel libro The Graduate.
Finché frequentava il Williams College egli incontrò Eva Rudd, una studentessa del Bennington College del Vermont. Costei era proveniente da una famiglia di insegnanti ed entrambi, Eve e Charles, condivisero fin da subito l’idea di contestazione nei confronti del mondo borghese rappresentato dalle loro famiglie e tennero uno stile di vita non convenzionale. La loro prima volta, raccontarono essi stessi agli intervistatori, fu in un cimitero. Ma la loro storia d’amore e l’avversione della madre di Eve verso Charles, divennero la storia del romanzo. E l’ispirazione del personaggio di Mrs Robinson, la seduttrice del giovane Benjamin, potrebbe provenire da qualche persona in amicizia coi suoi genitori, incidentalmente vista nuda.
Orville Prescott, recensendo il libro sul Times, lo ha definito un “fallimento immaginario” ma ha paragonato il protagonista al Giovane Holden di Salinger, ovvero il personaggio che, con il suo borbottio e la sua conversazione sconnessa, aveva saputo catturare nel 1951 lo spirito del momento. Ciò avveniva giusto in tempo prima che arrivasse la repressiva era Eisenhower e gli anni sessanta in Technicolor. In quelle opere i personaggi non sono idealisti, ma sono alla ricerca di ideali e la fuga da valori e stili di vita convenzionali è, più che collettiva, dolorosa.
La vita della coppia fu quindi una sorta di viaggio iconoclastico ed Eve più tardi volle cambiare le proprie generalità adottando il nome Fred, in solidarietà con un gruppo di auto-aiuto per l’uomo con scarsa autostima. Si sposarono nonostante gli interventi contrari dei genitori e poi rivendettero i regali di matrimonio agli ospiti donando a carità il denaro.
“Il loro matrimonio (il primo) fu una contraddizione totale rispetto al modo in cui condussero la loro vita”, dice la sorella Priscilla Rudd Wolf. Fu un matrimonio importante. Mia sorella vestiva un abito bianco da sposa. Avvenne nella cappella della scuola di Salisbury (Vermont) dove insegnavano i miei genitori, c’era tutta la città ed io ero la damigella d’onore. Sembravano proprio una tipica coppia americana destinata ad una vita tipicamente americana. Ma non fu così. Perdere ciò che possedevano divenne per loro una missione a tempo pieno. La prima delle tre case che avrebbero gettato via, dicendo che possedere cose era opprimente, fu il bungalow in California.
Charles Webb rifiutò l’eredità della famiglia di suo padre, ma non fu in grado di rinunciare ai soldi di sua madre perciò lo regalarono via assieme alle opere di Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Robert Raushenberg.
Mentre gli anni sessanta fiorivano la coppia si sottopose ad una terapia gestaltica. Fred per presa di posizione femministica tenne uno spettacolo di nudo femminile e per fronteggiare le oppressive domande di ornamento femminile si rase i capelli a zero.
Si trasferirono quindi in California e poi di nuovo ad est in una casa fatiscente presso Hastings sull’Hudson, N.Y. nella Contea di Westchester dove ebbero due figli: John e David.
I libri
Come scrittore Webb fece seguire a The Graduate nel 1969 (ovvero dopo il successo del film a sei anni dalla pubblicazione del primo libro) un secondo romanzo dal titolo “Love, Roger” e poi un terzo nel 1970 “The Marriage of a Young Stockbroker trasformato in un film con Richard Benjamin. Ma non funzionarono molto e la critica non li considerò comparabili con il debutto. Inoltre lui si rifiutò sempre di firmare le copie in vendita, considerandolo un “peccato di indecenza”.
Nella sua vita Webb ha pubblicato otto libri, incluso un sequel del The Graduate, dal titolo “Home School” (2007). In esso i protagonisti del primo romanzo, Benjamin ed Elaine, sono cresciuti e istruiscono direttamente i propri figli. Egli accettò di pubblicarlo solo per saldare un debito di 37000 dollari, come racconta un amico reporter che all’epoca li aiutò. Egli aveva un rapporto odioso col denaro, dice Caroline Dawnay che fu l’agente di Webb quando un altro suo romanzo “New Cardiff” fu trasposto nel film “Hope Springs” del 2003.
Verso la fine degli anni settanta la coppia fece ritorno alla West Coast e ritirò i figli dalla scuola scegliendo di scolarizzarli in casa, cosa che al tempo non era sanzionata. E cosi la famiglia se ne andò in giro vagando tra un campeggio e l’altro in un camper Volkswagen. Nel 1992 in una intervista al Washington Post (il figlio) John Webb definì questo tipo di formazione una “de-scolarizzazione”.
Charles Webb fece lavori umili. Impiegato, stagionale, pulizie domestiche e per un lungo periodo la coppia fu anche custode di una colonia nudista nel New Jersey guadagnando 198 dollari alla settimana.
Webb ha sempre contestato il fatto di essere legato a The Graduate, ma nei primi anni novanta egli ne scrisse il sequel, “Gwen”, nel quale il personaggio immaginario della figlia di Bemjamin ed Eliane fa da narratrice. Vi si descrive un padre che trova liberatorio liberarsi dei beni materiali e aiutare il prossimo. Questo libro non è mai stato pubblicato e passarono altri 25 anni prima del libro “New Cardiff” del 2001.
Da allora la coppia ha vissuto in Inghilterra e Ms Dawnay, che li andò a trovare a Brighton, racconta che loro vivevano in un appartamento quasi senza mobili e disponevano solamente di un cambio d’abiti.
Sebbene il romanzo New Cardiff sia stato accolto calorosamente esso non servì a rilanciare la carriera di Webb come non vi riuscì neanche “Home school”, pubblicato nel 2007.
Fred, la moglie di Webb, è morta nel 2029 lasciandolo molto solo e nella vedovanza è stato aiutato dai figli David e John. Ma suo figlio David, in una delle sue performance artistiche, una volta ha cucinato una copia del libro The Graduate e se lo è mangiato in pubblico con la salsa di mirtilli.
Nelle ultime pagine del romanzo di Webb, Benjamin ed Eliane sono soli sul bus, sono due giovani scossi e diretti verso un futuro che è solo opaco. L’atmosfera di quel momento è quella colta dal famosissimo verso Hello darkness my old friend (Ciao oscurità, mio vecchio demonio) di Paul Simon; ma nel film invece i due sono in mezzo alla gente del bus, sorpresa e sbigottita. Ebbene, se il libro coglie quella che poi sarà la nota dominante del vita reale di Charles ed Eve, il finale del film coglie invece il destino dei giovani che hanno fatto il sessantotto.
In generale direi che le due opere, libro e film, sono diverse come diversi sono i loro destini nella memoria collettiva. Il libro che risale al 1963, esprime un rifiuto esistenziale, il fil, un rifiuto generazionale. L’elemento più attraente del libro è i conflitto interiore del giovane Ben mentre nel film è la morbosa seduzione della signora Robinson. Il romanzo fa del lettore uno psicologo, il film ne fa un guardone.
Nella traduzione italiana Ben dà sempre del lei a Mrs Robinson, anche quando la relazione sessuale in Hotel è intensa e avviata da mesi. Forse è una scelta dell’editore italiano, seguita dal traduttore, che vuole evidenziare la differenza di età tra i due. Tale accorgimento finisce per ingigantire il divario generazionale.
La signora Robinson con le sue menzogne diventa la strega cattiva della storia. E tutta la storia muta nelle ultime pagine trasformandosi in una fiaba a lieto fine con la famosa frenetica interruzione del matrimonio combinato.
Direi che il film semplifica la storia perché depotenzia tutta la parte che si svolge a Berkeley. Ben infatti, venduta l’auto si sistema in una stanza d’affitto vicino a dove studia Eliane. Qui dopo vari tentennamenti reciproci i due capiscono che si amano ma devono affrontare l’intromissione delle famiglie. Avvengono incontri tra Benjamin e il signor Robinson e tra Benjamin e suo padre ma non portano al chiarimento.
La figura della madre è più sfumata nel libro di quanto non si possa prefigurare. Spesso la madre non è molto di più di una invadente “signora Braddock” (capitolo due), in una famiglia che seppur formalmente corretta appare oppressiva nei confronti del figlio perché i genitori lo rendono responsabile delle realizzazione dello loro proprie aspettative. Il figlio, al quale non hanno mai fatto mancare niente, per fare la sua parte dovrebbe diventare insegnante; se non lo fa li delude. E se li delude cade in depressione e non ce la fa più a reggere il proprio ruolo. Ecco, è questa la condizione di ignavia che caratterizza il comportamento di Ben nei primi capitoli.
Inoltre le aspettative che lo condizionano non sono solo dei genitori. Ma di tutto l’ambiente in cui egli è inserito. E ciò si vede bene nel quarto capitolo quando la discussione col padre si fa grossa. A complimentarsi con lui non sono solo i genitori ma tutto il sistema di relazioni famigliari. E Ben sente tutto il peso di questa responsabilità sistemica. Si sente un “maledettissimo simbolo di prestigio sociale” al punto da subire rassegnatamente anche i peccati, le trasgressioni di quell’ambente.
La scena della seduzione è piuttosto sexy ed intrigante se si pensa che è stata scritta nel 1963. L’autore l’ha concepita e scritta su spunto autobiografico visto che nel 1962 era nella stessa condizione del protagonista Ben, cioè studente ed aveva due anni di più. Ciò non significa che egli sia stato sedotto da una amica di famiglia dell’età di sua madre, non c’è nessun riscontro nella sua, peraltro scarna, biografia. Ma certo che nella sua testa gli frullavano stimoli ambientali. E il suo ambiente era, appunto, uguale a quello descritto.
L’autore non scrive in prima persona, ma parteggia nettamente per il protagonista evidenziando tutti gli aspetti che lo mostrano incerto, titubante, vittima e parte debole nell’azione. Ben è l’agnellino catturato dal lupo; colui che “le montò addosso e si mise all’opera” (pg 78) solo dopo aver messo davanti tutte le timidezze e contraddizioni dell’innocenza.
Le differenze scolastiche tra America e Italia rendono difficile la traduzione del termine graduate e ciò ha determinato la scelta più comoda dei termini Laurea e laureato per il pubblico italiano. In realtà però nel romanzo il protagonista Benjamin non consegue la laurea ma il titolo B.A. (Bachelor of Arts) che è di poco superiore alla nostra Maturità.
Il film, che il Morandini definisce “Molto datato, ma prezioso per capire l’aria dell’epoca”, è il vero responsabile del successo di questa storia. Il successo mondiale di quella pellicola ha dato infatti l’oscar per la regia a Mike Nichols e ha lanciato il sound di Simon & Garfunkel. Ma è utile osservare che ciò è avvenuto cinque anni dopo la scrittura del libro; i cinque anni in cui è cambiato il mondo e la generazione del sessantotto è montata a cavallo. A mio avviso, volendo valutare approssimativamente il rapporto tra la storia scritta e la storia filmata in relazione al contesto dell’epoca, il libro era più coraggioso. Gli sceneggiatori (Buck Henry e Culder Willingham) sono stati fedeli al testo ma la scena finale della fuga dalla chiesa in abito da sposa coi sorrisi in autobus tipo “vissero felici e contenti” è decisamente in ritardo. Fuori contesto.
In quell’anno, il 1967, quel contesto, quello rivoluzionario giovanile di quell’epoca indimenticabile, era certamente improntato all’amore. E’ l’anno in cui i Beatles cantarono All You Need is Love nel il primo collegamento realizzato in mondovisione, è l’anno dei figli dei fiori e l’estate dell’amore; l’anno in cui siamo molto lontani dalle suggestioni violente del quinquennio successivo, ma è anche il momento in cui le vecchie convenzioni morali e i veli bianchi giungono al capolinea. L’anno in cui, al contrario dei personaggi filmati, i giovani smontarono da quell’autobus con l’entusiasmo e la determinazione che caratterizzerà l’incombente sessantotto.