il 14 ottobre del ’68 era un Lunedì. Mio padre, dopo 5 anni di vedovanza, si era risposato ormai da un anno con una operaia Marzotto che era maestra di orditura e faceva i turni. Avevamo cambiato casa passando da via Ugo Foscolo a via Carducci. Uno spostamento di una decina di metri in linea d’aria. Questo appartamento, anch’esso costruito da Marzotto ed assegnato con contratto di riscatto, era più piccolo, ma ben arredato e non mancava, ovviamente, la televisione. Ci volevano quattro piani di scale per raggiungerlo, ma aveva uno comodo scantinato facilmente accessibile. Ed era lì che mi rifugiavo dopo cena per fumare, cosa questa ancora altezzosamente vietatami nonostante i miei diciassette anni.
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Quella sera di metà ottobre 1968 lasciai mio padre che fumava in cucina guardando i giochi olimpici e, una volta scese le scale a saltoni, mi recai alle panchine. Volevo fumare e chiacchierare con i miei amici. Ricordo che non si parlò della sanguinosa repressione studentesca appena avvenuta a Città del Messico, dove si tenevano appunto le olimpiadi, una repressione che vide la polizia aprire il fuoco sulla folla dagli elicotteri massacrando cinquecento studenti che manifestavano, ma si parlò di Hey Jude.
Questo pezzo dei Beatles nell’ottobre novembre di quell’anno primeggiava in classifica in mezzo mondo e divenne presto il preferito nelle nostre festine in cui si ballava stretti a luci spente. La sua forza, dal nostro punto di vista, era l’ultima parte molto lunga e ripetitiva, che costituiva il momento giusto per tentare il bacio appassionato. Già, infatti il bacio era considerabile “appassionato” solo se era effettuato con l’apporto della lingua mentre quello senza lingua non costituiva peccato con obbligo di confessione (salvo se accompagnato da cattivi pensieri). Quindi l’ultima parte di Hey Jude era, nel nostro sistema di valori, decisamente peccaminosa. E ciò rendeva quel pezzo affascinante e trasgressivo.
Ma non era cosi per i più politicizzati di noi. E qui occorre precisare che tra le panchine dove si cominciava a sentire l’aria del sessantotto, a politicizzarsi furono prima quelli di destra. Infatti la discussione della serata verteva sul tentativo di rifiutare quella canzone perché “israelita”. Il testo, secondo i destrorsi che si vantavano di conoscere l’inglese, si rivolgeva agli ebrei perché JUDE veniva inteso come “giudeo” e un successivo verso veniva inteso come “remenber the letter under your skin” considerandola una allusione al tatuaggio sulla pelle degli internati nei campi di stermino. Ora, la vicenda dei campi di sterminio con annessa camera a gas non era considerata vera dai nostri amici filonazisti i quali, è giusto precisare, lo erano molto ingenuamente e con approccio piuttosto infantile. Pertanto in quella fantasiosa interpretazione della canzone si vedeva un messaggio comunista filoebraico. “E’ stato il mona di John Lennon che ha perso la testa per quella …(poco di buono)… di comunista giapponese (Yoko Ono) a cambiare lo stile dei Beatles e metterci dentro la politica!” disse il più accalorato sostenitore della tesi negazionista. Mentre quelli come me che non sapevano l’inglese pensavano semplicemente che “gionleno” stesse dando un po’ i numeri per via dell’erba marijuana. La discussione fu lunga e accalorata. E forse anche troppo gridata e sboccata tanto da farci richiamare dal prete i giorni successivi. Pare che ci sia stata anche una richiesta, una petizione, da parte di alcune signore bene con le finestre affacciate lungo il viale delle panchine, affinché le panchine stesse venissero benedette al fine di scacciare il demone del turpiloquio. Ma alla fine l’intero gruppo di panchinari rimase unito e trovò relativa pacificazione nel convenire che in fin dei conti Jumping Jack flash dei Rolling Stones, era molto meglio di Hey Jude.
Sapevamo, perché ne aveva parlato Arbore a “per voi giovani” che questa canzone era stata composta durante l’estate da Keith e Mick una mattina dopo una notte brava, ma non sapevamo che essa, come racconta oggi Philip Norman, era stata riadattata nel testo in un’ottica censoria verso i genitori. Mick infatti non scriveva mai i propri testi, li improvvisava al microfono e così colei che lo trascrisse (Shirley Arnold) consapevole che quel giorno stava arrivando la madre di Mick per la visita settimanale, tagliò il verso “I was raised from a toothless, bearded hag” (sono stato allevato da una strega sdentata e barbuta) che fu poi ri-aggiunto nel 45 giri.
Oggi, cinquant’anni dopo, potendo disporre di un po’ di buon senso si può tentare di chiarire che il fattore decisivo che fece convergere la compagnia su quel pezzo molto ritmato e aggressivo, fu la convinzione che esso pur non avendo un momento buono per il bacio, faceva saltare le ragazze donandoci il relativo ballonzolamento dei seni. Occorreva però tenere le luci, seppur moderatamente, accese.
Ma alcuni di noi sanno, forse quelli più moderatamente sinistrorsi, che nel successivo periodo delle festività natalizie, quando si preparavano le prove per lo Stu-show dell’ANNO SCOLASTICO 1968/69, si era già affermata la pratica di far suonare prima i Rolling Stones per scaldare la festa e poi, a luci spente, i Beatles per baciare le ragazze. Ragazze le quali, accaldate, non sempre avevano chiaro con chi stavano ballando e più di qualche volta generarono un po’ di confusione sotto l’effetto del verso che dice: “Hey Jude, don’t be afraid but take a sad song and make it better”. Anzi una li loro, che diceva di sapere l’inglese, mi disse che “remember to let her under your skin “ voleva in realtà dire: “ricordati di lasciarla sotto la pelle”… Ed è proprio ciò che feci… Già. La differenza tra “Letter” e “Let her” può cambiare una storia.
Ma oggi, dicevo, che disponiamo di wikipedia e di libri che raccontano la vera storia dei Beatles, come ad esempio Shout! e/o Mick Jagger di Philip Norman, sappiamo dettagli che allora ci sfuggivano. Innanzitutto i giudei, le camere a gas ecc. non c’entrano niente con Hey Jude. Così come in Jumping Jack Flash non c’entrano i lampi sulle danzatrici saltellanti, ma semmai qualche fiaba o la diabolica pioggia di bombe della seconda guerra mondiale. Inoltre Hey Jude l’ha composta Paul con solo qualche sporadico suggerimento al testo da parte di John. Infine i Beatles erano profondamente divisi all’epoca con Paul (qualcuno dice Faul) che stava lanciando la Apple su una dimensione melodica scarsamente rivolta al rock. Anzi aveva appena prodotto il successo di Mary Hopkins “Those were the days” che volava in testa alle classifiche rimanendo seconda solo, appunto, a Hey Jude. Quella canzone in Italia era cantata da Gigliola Cinquetti e diceva “quelli eran giorni si, erano giorni che … noi ballavamo anche senza musica … e quando il semaforo segnava rosso noi passavamo allegri ancor di più…“ecc. cioè si evoca il ballo come fattore di libertà trasgressiva. I nostri argomenti erano quindi sulla bocca di una cantante che consideravamo superata dal rock, inteso come espressione della nuova libertà.
Ma il dettaglio che possiamo sapere solo oggi è che quella canzone (Those were the days) venne usata come inno durante la fucilazione di massa che represse il tentato golpe in Guinea Equatoriale nel Natale del 1975. Il presidente Nguiema, che era salito al potere proprio a metà ottobre del 1968, aveva poi fatto fucilare nello stadio della capitale, i 150 traditori golpisti.
Da una fucilazione all’altra, da Città del Messico a Malabo passando per il ballo e il tradimento: Veritas filia temporis.