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22 ottobre 2018 1 22 /10 /ottobre /2018 20:59

 

 

il 14 ottobre del ’68 era un Lunedì. Mio padre, dopo 5 anni di vedovanza, si era risposato ormai da un anno con una operaia Marzotto che era maestra di orditura e faceva i turni. Avevamo cambiato casa passando da via Ugo Foscolo a via Carducci. Uno spostamento di una decina di metri in linea d’aria. Questo appartamento, anch’esso costruito da Marzotto ed assegnato con contratto di riscatto, era più piccolo, ma ben arredato e non mancava, ovviamente, la televisione. Ci volevano quattro piani di scale per raggiungerlo, ma aveva uno comodo scantinato facilmente accessibile. Ed era lì che mi rifugiavo dopo cena per fumare, cosa questa ancora altezzosamente vietatami nonostante i miei diciassette anni.

 

               …

 

Quella sera di metà ottobre 1968 lasciai mio padre che fumava in cucina guardando i giochi olimpici e, una volta scese le scale a saltoni, mi recai alle panchine. Volevo fumare e chiacchierare con i miei amici. Ricordo che non si parlò della sanguinosa repressione studentesca appena avvenuta a Città del Messico, dove si tenevano appunto le olimpiadi, una repressione che vide la polizia aprire il fuoco sulla folla dagli elicotteri massacrando cinquecento studenti che manifestavano, ma si parlò di Hey Jude.

 

Questo pezzo dei Beatles nell’ottobre novembre di quell’anno primeggiava in classifica in mezzo mondo e divenne presto il preferito nelle nostre festine in cui si ballava stretti a luci spente. La sua forza, dal nostro punto di vista, era l’ultima parte molto lunga e ripetitiva, che costituiva il momento giusto per tentare il bacio appassionato. Già, infatti il bacio era considerabile “appassionato” solo se era effettuato con l’apporto della lingua mentre quello senza lingua non costituiva peccato con obbligo di confessione (salvo se accompagnato da cattivi pensieri). Quindi l’ultima parte di Hey Jude era, nel nostro sistema di valori, decisamente peccaminosa. E ciò rendeva quel pezzo affascinante e trasgressivo.

Ma non era cosi per i più politicizzati di noi. E qui occorre precisare che tra le panchine dove si cominciava a sentire l’aria del sessantotto, a politicizzarsi furono prima quelli di destra. Infatti la discussione della serata verteva sul tentativo di rifiutare quella canzone perché “israelita”. Il testo, secondo i destrorsi che si vantavano di conoscere l’inglese, si rivolgeva agli ebrei perché JUDE veniva inteso come “giudeo” e un successivo verso veniva inteso come “remenber the letter under your skin” considerandola una allusione al tatuaggio sulla pelle degli internati nei campi di stermino. Ora, la vicenda dei campi di sterminio con annessa camera a gas non era considerata vera dai nostri amici filonazisti i quali, è giusto precisare, lo erano molto ingenuamente e con approccio piuttosto infantile. Pertanto in quella fantasiosa interpretazione della canzone si vedeva un messaggio comunista filoebraico. “E’ stato il mona di John Lennon che ha perso la testa per quella …(poco di buono)… di comunista giapponese (Yoko Ono) a cambiare lo stile dei Beatles e metterci dentro la politica!” disse il più accalorato sostenitore della tesi negazionista. Mentre quelli come me che non sapevano l’inglese pensavano semplicemente che “gionleno” stesse dando un po’ i numeri per via dell’erba marijuana. La discussione fu lunga e accalorata. E forse anche troppo gridata e sboccata tanto da farci richiamare dal prete i giorni successivi. Pare che ci sia stata anche una richiesta, una petizione, da parte di alcune signore bene con le finestre affacciate lungo il viale delle panchine, affinché le panchine stesse venissero benedette al fine di scacciare il demone del turpiloquio. Ma alla fine l’intero gruppo di panchinari rimase unito e trovò relativa pacificazione nel convenire che in fin dei conti Jumping Jack flash dei Rolling Stones, era molto meglio di Hey Jude.

Sapevamo, perché ne aveva parlato Arbore a “per voi giovani” che questa canzone era stata composta durante l’estate da Keith e Mick una mattina dopo una notte brava, ma non sapevamo che essa, come racconta oggi Philip Norman, era stata riadattata nel testo in un’ottica censoria verso i genitori. Mick infatti non scriveva mai i propri testi, li improvvisava al microfono e così colei che lo trascrisse (Shirley Arnold) consapevole che quel giorno stava arrivando la madre di Mick per la visita settimanale, tagliò il verso “I was raised from a toothless, bearded hag” (sono stato allevato da una strega sdentata e barbuta) che fu poi ri-aggiunto nel 45 giri.

 

Oggi, cinquant’anni dopo, potendo disporre di un po’ di buon senso si può tentare di chiarire che il fattore decisivo che fece convergere la compagnia su quel pezzo molto ritmato e aggressivo, fu la convinzione che esso pur non avendo un momento buono per il bacio, faceva saltare le ragazze donandoci il relativo ballonzolamento dei seni. Occorreva però tenere le luci, seppur moderatamente, accese.

Ma alcuni di noi sanno, forse quelli più moderatamente sinistrorsi, che nel successivo periodo delle festività natalizie, quando si preparavano le prove per lo Stu-show dell’ANNO SCOLASTICO 1968/69, si era già affermata la pratica di far suonare prima i Rolling Stones per scaldare la festa e poi, a luci spente, i Beatles per baciare le ragazze.  Ragazze le quali, accaldate, non sempre avevano chiaro con chi stavano ballando e più di qualche volta generarono un po’ di confusione sotto l’effetto del verso che dice: “Hey Jude, don’t be afraid but take a sad song and make it better”. Anzi una li loro, che diceva di sapere l’inglese, mi disse che “remember to let her under your skin “ voleva in realtà dire:  “ricordati di lasciarla sotto la pelle”… Ed è proprio ciò che feci… Già. La differenza tra “Letter” e “Let her” può cambiare una storia.

 

Ma oggi, dicevo, che disponiamo di wikipedia e di libri che raccontano la vera storia dei Beatles, come ad esempio Shout! e/o Mick Jagger di Philip Norman, sappiamo dettagli che allora ci sfuggivano. Innanzitutto i giudei, le camere a gas ecc. non c’entrano niente con Hey Jude. Così come in Jumping Jack Flash non c’entrano i lampi sulle danzatrici saltellanti, ma semmai qualche fiaba o la diabolica pioggia di bombe della seconda guerra mondiale. Inoltre Hey Jude l’ha composta Paul con solo qualche sporadico suggerimento al testo da parte di John. Infine i Beatles erano profondamente divisi all’epoca con Paul (qualcuno dice Faul) che stava lanciando la Apple su una dimensione melodica scarsamente rivolta al rock. Anzi aveva appena prodotto il successo di Mary Hopkins “Those were the days” che volava in testa alle classifiche rimanendo seconda solo, appunto, a Hey Jude. Quella canzone in Italia era cantata da Gigliola Cinquetti e diceva “quelli eran giorni si, erano giorni che … noi ballavamo anche senza musica e quando il semaforo segnava rosso noi passavamo allegri ancor di più…“ecc. cioè si evoca il ballo come fattore di libertà trasgressiva. I nostri argomenti erano quindi sulla bocca di una cantante che consideravamo superata dal rock, inteso come espressione della nuova libertà.

 

Ma il dettaglio che possiamo sapere solo oggi è che quella canzone (Those were the days) venne usata come inno durante la fucilazione di massa che represse il tentato golpe in Guinea Equatoriale nel Natale del 1975. Il presidente Nguiema, che era salito al potere proprio a metà ottobre del 1968, aveva poi fatto fucilare nello stadio della capitale, i 150 traditori golpisti.

 

Da una fucilazione all’altra, da Città del Messico a Malabo passando per il ballo e il tradimento: Veritas filia temporis.

 

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Published by omniavulnerant - in racconti
11 maggio 2018 5 11 /05 /maggio /2018 16:52

 

In un suo scritto che risale al Marzo 1982, Borges narra dei suoi genitori. Fu suo padre Jorge Guillermo a stimolarlo a scrivere e per questa ragione penso proprio che il mondo contemporaneo gli debba infinita gratitudine. Scrivere quando se ne avverte necessità e poi nessuna fretta, a pubblicare c’è sempre tempo.

 

Jorge Luis lo racconta in una delle sue preziose autointerviste pubblicate da Il Giornale e oggi riproposte nella collana “fuori dal coro” sotto la direzione di Sallusti. E dopo aver descritto con simpatia le sue minime avventure pubblicistiche tra il 1923 e il1930 parla di sua madre: “Una creatura straordinaria” che “credo non ebbe alcun nemico”.

 

Egli ebbe un rapporto moto bello coi genitori e con tutta la famiglia e qui, in questo testo apparentemente semplice Borges richiama in poche righe alcuni dolci tratti biografici con la modestia dei grandi. In quelle poche righe c’è tutto, perché c’è il senso di una vita anche sofferta, ma sempre con amore.

 

                                                                                ***

 

In questo tempo nel quale si assiste al meschino fallimento del premio Nobel per la letteratura, un fallimento endogeno ma trattato dai media come scandalo sessuale per ottenere magnitudo, si rimpiangono in quelle righe le occasioni perdute. Borges è un Nobel mancato, ma forse non sentiremo più la mancanza del Nobel.

 

 

 

 

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5 maggio 2018 6 05 /05 /maggio /2018 22:02

 

 

 

Carlo Marx è nato a Treviri il 5 Maggio del 1818. Era figlio di Heinrich, un avvocato ebreo,  che per poter esercitare la professione si era convertito al cristianesimo protestante. La madre Henriette discendeva da rabbini di origne olandese.

Fu uno dei più importanti pensatori della storia, conosceva perfettamente cinque lingue e condusse una vita onesta in vari paesi dell'Europa dedicandosi allo studio e all'elaborazione di un sistema di pensiero analitico e critico verso la realtà materale e la sua storia. Da suo lavoro intellettuale derivano la cultura e la prassi del più importante movimento politico della storia moderna: il movimento operaio.

In una ettera alla filgia Laura dell'11 Aprile 1868 egli si descrive in questi termini:"Io sono una macchina, ccndannata a trangugiare i libri per buttarli fuori in forma diversa sul letamaio della storia".

 

Carlo Marx è morto a Londra il 14 Marzo del 1883.

Amò e fu amato dalla sua famiglia e dai suoi amici ed ammiratori. Dalla sua morte il suo ricordo perdura nel rispetto e nella memoria di innumerevolii milioni di persone.

 

Oggi a Treviri campeggia un monumento ideato e donato da artisti cinesi la cui patria è sulla soglia della leadership mondiale grazie ad un sistema economico sociale realizzato in suo nome.

 

 

 

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19 marzo 2018 1 19 /03 /marzo /2018 12:51

 

 

 

 

Tra gli abili narratori di regime c’è Pino Corrias. Costui scrive bene ed ha una qualità spiccata nella sterilizzazione delle notizie. Con lui ogni catastrofe diventa un fatto destinato ad un malinconico, ma tollerabile fatto della nostra cultura nazionale. Una delle tante sfighe che incorrono nel normale fatalismo della vita.

Egli dedica nel suo ultimo libro, freschissimo di stampa, una ventina di pagine al caso Moro. Si occupa di luoghi topici per la nostra cronaca e si sofferma a commentare la lapide dedicata ai caduti di via Fani. Quando l’ha scritto non sapeva evidentemente che la lapide è stata insozzata di scritte ignominiose a metà Febbraio ultimo scorso per cui coglie ciò che in essa non c’è ovvero il nome di Aldo Moro.

 

Il sedici Marzo Moro ha una camicia bianca che indosserà anche il giorno della sua morte lavata e stirata. Da chi, dalle Br? Barbara Balzerani, Adriana Faranda, Anna Laura Braghetti? O dalle suore di Marcincus? Certo qualcuno gliel’ha lavata. E poi stirata con amore, anche se magari non sapeva che era sua. Ma se lo sapeva il messaggio è chiaro: torna a casa pulito e stirato. E’ finita.

La Fiat 130 blu cha passa di lì ogni mattina è guidata da Ricci con Leonardi che sta con Moro da 20 anni ed è “uno di famiglia”. Viene sorpassata da una 128 guidata da Moretti. Si l’ingegner Moretti, quello che oggi lavora da 14 anni alla Regione Lombardia, quella di Maroni e Formigoni…

Ma chi c’è alla destra di Moretti, chi sta con lui? Chi è che smonta e fulmina Leonardi in un lampo?

La strage di via Fani è “un’azione analizzata nei 40 anni successivi in 5 processi, 23 sentenze, 3 commissioni parlamentari, centinaia di libri, migliaia di interrogatori, milioni di pagine, milioni di parole.” Scrive Corrias. Ma non sappiamo chi c’era. Forse un super tiratore americano, o uno dei super addestrati del Mossad. Mah! Comunque quello ha sparato 49 colpi da solo, su 92 totali a giudicare dai bossoli e dai buchi sulle carrozzerie… ed appare piuttosto improbabile che fosse Seghetti. E non era neanche Moretti stesso perché era impegnato a tenere il piede sul freno e la mano sul freno a mano per non la sciar spazio a Ricci, sulla Fiat 130, il quale a sua volta tentava di farsi largo tra le auto che lo bloccavano. A proposito, chi ha messo la Mini a parcheggio sulla destra, trovata geniale che si è rivelata logisticamente decisiva? Quello che è certo è che si tratta di un’auto riconducibile ai servizi segreti italiani. Lo ha scritto l’ultima commissione parlamentare. Vuoi vedere che l’on. Giuseppe Fioroni, medico, ex sindaco di Viterbo, ex ministro della Pubblica Istruzione, uomo di Prodi è passato coi complottisti?

E chi ha ucciso con fenomenale colpo di pistola l’agente Jozzino, il quale era nel sedile posteriore destro dell’Alfetta di scorta e fece in tempo a scendere, posizionarsi al centro della strada prendere la mira in posizione di tiro prima di venire abbattuto? Morucci ha scritto nel memoriale che fu Bonisoli, il cui mitra si era inceppato e aveva tirato fuori la sua pistola. Ma è più probabile che sia stato un supervisore dall’esterno del commando, uno dei tanti presenti sulla scena per aiutare le Br a non fallire. Infatti è questo il punto chiave del mistero irrisolto: chi c’era veramente in via Fani quel mattino?

Di sicuro c’era il colonnello Guglielmi, esperto addestratore di Gladio presente sul posto fin dalle otto, quando era andato a trovare un amico che abitava lì vicino perché era da costui stato invitato a pranzo. Ma guarda che caso.  Se c’era uno da mettere a supervisione in quel luogo, in quella mattina, ebbene era proprio lui.

Poi c’è la storia della motocicletta. Ci sono testimonianze, acquisite dalla Commissione Parlamentare, secondo cui quel mattino c’erano due uomini, dei quali uno armato, che tenevano a bada i passanti e che sarebbero, dopo aver sparato sul parabrezza di un passante in vespa, partiti di gran carriera nella stessa direzione dell’auto che conteneva Aldo Moro appena rapito.

Ma di tutte queste cose Pino Corrias non si occupa, perché sono complottismi e anzi scrive: “Nessun militante brigatista, nessun fiancheggiatore o killer pentito… ha mai rivelato doppie identità o fini ulteriori, remoti o differenti da quelli ciclostilati e diffusi…”   E poi:

“…il grosso ormai è noto e la sua semplicità è disarmante. Moro è stato sequestrato e ucciso dai brigatisti. E non ha niente a che vedere con le poderose macchine narrative – il superclan e la scuola Hiperion di Parigi, la CIA di Steve Pieczenik e l’agente russo nonché maestro d’orchestra Igor Markevic – che specialmente le commissioni parlamentari hanno messo in moto per aumentare a dismisura l’elenco dei colpevoli, dei complici e (certamente) attenuare il senso di colpa che sempre si intravede al fondo delle loro monumentali indagini.” (pg. 142)

 

 

Mah… o c’è o ci fa.

Se c’è bisogna spiegargli che l’intelligence esiste nella realtà e non nei romanzi. Ciò che esiste nei romanzi può essere rifiutato, basta un piccolo sforzo mentale. Ma ciò che fa l’intelligence nella realtà lo si può solo subire. Le polizie segrete esistono nella realtà, non nei romanzi. E sono fatte di infiltrati, di doppie identità ed, haimè, di vite false che possono solo essere negate. Non svelate. Se si vuole si può pensare che si tratti di pochi e rari casi. Casi lontani dalla nostra integra quotidianità, ma non è così. E’ una malattia degenerativa delle civiltà moderne, una metastasi difficile da diagnosticare proprio perché nascosta dalla falsa comunicazione. Una realtà ben nota alle moderne scienze sociali, diagnosticata dai vari Packard, Marcuse, Chomsky ecc. ma mistificata e derisa da un esercito di moderni giullari che ignorano ogni principio di obbiettività in nome di un polically correct meschino ed autocensorio. Penne e mezzibusti spesso inconsapevoli, ma a volte consapevolmente malevoli. Assassini della verità.

E se ci fa? Allora bisogna difendersi. Ed è quello che gli elettori stanno facendo. E’ proprio sulla coscienza e l’istinto democratico della gente comune che possiamo fare riferimento. Perché il cosiddetto popolo non è fatto di stupidi, non è fatto di casi disperati, casi umani di disgraziati come quelli caricaturizzati dalla cronaca allarmistica. Il popolo è fatto di persone, madri, padri figli che lavorano o che ogni giorno affrontano l’arte e la fatica di vivere. Persone che meritano rispetto e giustizia.  

Già, giustizia. Sapendo che, come dice Giovanni Moro, l’unica giustizia possibile è la verità.

 

 

 

 

 

 

 

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5 febbraio 2018 1 05 /02 /febbraio /2018 21:48

 

 

 

 

 

Nella prospettiva delle imminenti elezioni politiche nei mesi scorsi si sono intensificate le esplorazioni sull’identità e la consistenza del Movimento 5 Stelle, la forza politica che domina i sondaggi.

Si tratta come è noto del soggetto parlamentare più temuto dal quadro istituzionale e dal ceto politico preesistente perché, nato e consolidato al di fuori del mainstream mediatico, si è addirittura mostrato resistente ad esso e ai suoi attacchi delegittimanti.

Definito col termine di “populismo” il Movimento 5 Stelle è assolutamente legittimo, non violento, garantista e legalista con una forte animosità contro gli endemici fenomeni di corruzione che caratterizzano la vita politica italiana, nonché portatore di istanze innovative circa le regole della politica.

All’inizio della legislatura, nonostante i suoi nove milioni di voti, esso è stato ignorato dall’establishment. E’ stato visto come un infortunio elettorale che ha portato in parlamento una massa di dilettanti incompetenti e rompiscatole di cui sarebbe stato facile liberarsi mostrando al paese la loro inconsistenza. Alle elezioni europee, svoltesi sotto l’abbaglio renziano, sinistra e destra si erano illuse che quella fosse la linea giusta. Ma alle successive elezioni amministrative (parziali) illustri candidati come Piero Fassino e Giachetti sono risultati sonoramente battuti da giovani figure del Movimento 5 Stelle come Raggi e Appendino. Allora si è passati all’attacco diretto ma dopo due anni di persistente e pesante bombardamento contro la sindaca di Roma Raggi il recente test municipale si è risolto a suo favore, rivelando pertanto tale linea inefficace e forse addirittura controproducente. E non solo a Roma pervhè alle elezioni regionali siciliane il candidato pentastellare non ce l’ha fatta, ma il Movimento 5 Stelle è diventato la prima forza politica.

 

Appare chiaro quindi che si tratta di un fenomeno non passeggero, che va preso sul serio e affrontato cambiando approccio.

In questo senso mi aspettavo, dopo una positiva presentazione televisiva di Corrado Augias, che il libro di Alessandro Dal Lago “POPULISMO DIGITALE” rappresentasse questa nuova tendenza. Perciò l’ho acquistato e letto con attenzione.

 

Il testo è il risultato di alcuni approfondimenti e monitoraggi che lo studioso, sociologo della cultura, ha portato avanti nell’ultimo anno consultando una ricca bibliografia e seguendo i comportamenti di questa nuova forza politica soprattutto nella dimensione digitale. Ne esce una interessante comparazione con gli altri populismi, storici e contemporanei, e una individuazione dei pericoli potenziali ad esso connessi. Quest’ultima parte però si lascia andare al recupero di vecchi schematismi propagandistici fino a definire il Movimento come un “fascismo travestito da democrazia diretta” e ciò determina una imerdinable caduta di stile. Il paragone col regime anticostituzionale sarebbe a malapena tollerabile se non ci fosse un reale pericolo fascista, ma i fatti recenti sono di tutt’altro segno ed è sempre meglio non scherzare con le etichette.

 

Prevale quindi nel libro la tentazione all’ossequio verso l’establishment sull’obiettività scientifica.

                                                                        

 

 ***

Il nuovo è nella Rete, con i suoi pericoli. E’ chiaro che sia la rete che il populismo portano con sé dei rischi. Ma ai populismo in Italia è già insediato e governa da un quarto di secolo con Berlusconi e Bossi ed è stato costruito essenzialmente col sistema televisivo, ovvero i vecchi media.  La vera novità è l’integrazione di questi con l’internet dello stadio 2.0 ovvero il social networking. E se finora la partecipazione in rete ha fornito nuove opzioni politiche non è detto che sarà sempre così perché il potere si sta trasferendo dagli stati nazionali ai nuovi padroni globali i quali operano al di fuori del controllo democratico. E questo è l’allarme che condivido tra quelli lanciati da Da Lago.

Il buon Antonio Gramsci, mentre si trovava in cattività con Pertini, annotava nei suoi quaderni molte riflessioni acute e ancora attuali circa la politica e la cultura nazionali.

E la frase che è stata scelta come incipit da Dal Lago, ne è un esempio felice:

La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Con questa citazione Dal Lago colloca il fenomeno politico che sta studiando in un quadro transitorio, critico e morboso. E infatti introduce il libro evidenziando il fenomeno della imprevedibilità dei comportamenti elettorali come caratteristica della attuale fase di transizione dall’opinione pubblica all’opinione digitale. Nella prima i media generalisti pilotano il consenso, nel secondo caso no. Anzi con Internet i cittadini possono agire direttamente sul sistema politico e lo fanno. E qui l’inattendibilità dei sondaggi, vedi Brexit e Referendum, sembra dargli ragione. Ecco quindi che la rete ha un ruolo rivoluzionario e consente “l’auto-organizzazione di movimenti impermeabili ai condizionamenti dell’establishment politico e informativo”. Una nuova libertà democratica.

Ma questa libertà è illusoria, scrive Dal Lago, perché mette i cittadini in una sorta di acquario, un ambiente artificiale nel quale nuotiamo illudendoci di essere liberi mentre in realtà ci muoviamo al servizio di interessi che ci restano sconosciuti. Esistono infatti i padroni de web, Zuckemberg ecc. che ne controllano i destini e di fatto ci offrono una illusione di indipendenza che produce soggezione inconsapevole. (pg 16)

 

Trovo l’osservazione degna di attenzione. Ma è comunque grazie a queste nuove libertà che giovani protagonisti come Di Maio ( e non Grillo e Casaleggio) possono portarsi sulla soglia di chi guida una delle dieci principali economie del mondo senza bisogno di un partito. E lo scopo della democrazia è appunto quello di permettere un ricambio dei leaders attraverso legittime spinte dal basso.

Anche l’avvento di Trump è stato un fenomeno di ricambio prodottosi al di fuori dei piani dell’establishment e oggi, nonostante l’isterismo degli attacchi sferrati dagli apparati interni (FBI), ad un anno dall’insediamento vi sono netti segnali di consolidamento del suo consenso anche nei mercati finanziari.

 

Aldilà di quali politiche faranno Trump e, ipoteticamente, Di Maio, la democrazia sembra pertanto, anche nell’era di internet, in grado di assicurare l’alternanza. Altro che fascismo.

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10 gennaio 2018 3 10 /01 /gennaio /2018 01:49

 

 

 

 

Il libro Le mani rosse sulle forze armate è un pamphlet uscito ne gennaio del 1966 con firma di tal Flavio Messalla. Si trattava però di uno pseudonimo dietro al quale si celava il lavoro di Pino Rauti, Guido Giannettini ed Edgardo Beltrametti. I primi due sono nomi molto noti della destra eversiva con coinvolgimenti nelle trame nere e in particolare Giannettini funzionario dei servizi segreti, mentre il terzo fu relatore e curatore degli atti del convegno sulla guerra rivoluzionaria tenutosi a Parco dei Principi nel 1965. Un convegno di estrema destra avente come tema centrale una chiamata al ruolo anticomunista delle forze armate.

Il volume fu auspicato dal generale Aloia, rivale dell’allora capo dei servizi segreti militari generale De Lorenzo. E contribuì alla campagna per la destituzione di quest’ultimo che avvenne nell’Aprile del 1967.

Esso sostiene una tesi politico militare secondo la quale l’impostazione neutralista del generale in capo De Lorenzo si traduce in un mancato contrasto che mette a rischio le nostre forze armate difronte alla pressione comunista. Si presuppone infatti che i comunisti lavorino per preparare l’invasione sovietica.

 

Io posseggo l‘edizione realizzata da Savelli nel 1975 la quale raccoglie un saggio analitico prodotto da una apposita commissione di studio creata da Lotta Continua in collaborazione con militari di leva. In esso nelle prime cinquanta pagine vengono esaminati i materiali e gli atti collegati al convegno e al libro. Il primo testo fuori circolazione era stato ritirato dal mercato su iniziativa dell’Ammiraglio Eugenio Henke, ma la commissione di Lotta Continua, disponendone di una copia sopravvissuta, rese possibile la pubblicazione fotostatica delle 75 pagine originali nella seconda parte del libro.

 

 

 

Citazione:

In una guerra futura due componenti di rilievo dovranno essere tenute in considerazione: quella atomica e quella sovversiva. Quest’ultima, a differenza della prima che è basata essenzialmente sula tecnologia, ha come soggetto principalissimo l’uomo, con tutti i suoi problemi d’ordine morale e materiale, le sue ideologie, le sue passioni, i suoi eccessi di fanatismo, di odio, di cupidigia; esso deve, quindi, essere oggetto di una accurata preparazione materiale e morale.”

 

 

 

 

 

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12 dicembre 2017 2 12 /12 /dicembre /2017 18:56

 

 

 

 

 

Dopo la umiliazione ricevuta sulla guerra siriana, che è stata contrabbandata per quattro anni da primavera araba mentre si trattava solo del tentativo occidentale di ridimensionare la Siria abbattendo Assad, gli USA impegnano il mainstream a non celebrare la vittoria di Putin (e dell’Iran) contro il terrorismo e lanciano una specie di piano B.

 E’ il piano che prevede il lancio di un nuovo asse di interessi sul teatro mediorientale tra Arabia Saudita e Israele. Il novo leader saudita Salman non può permettersi di sostenere Nethaniahu ma può tollerare che Trump sposti l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. A sua volta Nethaniahu può vedere bene la guerra di contenimento dell’Iran messa in atto dai sauditi nello Yemen.

 

In questo quadro leggo le fake news della settimana passata. Sono finalizzate ad orientare l’opinione pubblica verso questa nuova soluzione. I paesi NATO non possono permettere che Puntin, forte della vittoria siriana consolidi ora il ruolo di mediatore, preferiscono farlo fare a Macron il quale sta verificando la fattibilità di una mediazione che abbia al centro Gerusalemme. Vediamo come procederà.

 

Anche l’attentato alla stazione Bus di Manhattan potrebbe far parte del piano. Quando il sistema è in difficoltà ricorre al false flag e quelli recenti, come abbiamo in evidenza fin dal Boston Bombing, sono accompagnati dalla messa in scena di un Drill ovvero una modalità operativa per la formazione delle forze speciali. Si testano le procedure da seguire in caso di emergenza nell’ambito di esercitazioni militari. Il trucco è che nell’ambito del drill si piazza anche una bomba vera che esplode. Gli stessi pianificatori della manovra vengono ingannati da una componente occulta sita nel board direttivo. In pratica ci sono dei veri terroristi ma inconsapevoli di essere manipolati dentro la manovra che credono di fare. Detonatori e timer sono quasi sempre truccati. La detonazione avviene sempre in luoghi massivi per testare il controllo antipanico.

L’evento viene quindi speso secondo la strategia comunicativa più utile in quel determinato frangente e questo lo decide la componente politica del board.

In questo caso rilanciare l’allarme anti ISIS è utile ad affievolire l’effetto vittoria di Putin in Siria. Collegarlo poi alla storiella di Gerusalemme significa potenziare (nelle intenzioni dei pianificatori) il ruolo americano. Infine il fatto di localizzare l’evento terroristico a NY è utile per mettere sotto tensione l’ONU nei giorni decisivi per la presa d’atto del rafforzamento russo.

 

Trump, che sull’arte del negoziato ha scritto un libro di successo,(il best seller Art of the Deal uscito nel 1987) è esperto negoziatore e fa un punto d’onore nel dimostrare di riuscire ove i predecessori hanno fallito. Il negoziato più fallimentare degli ultimi decenni è quello relativo al tema palestinese e lui ci sta provando. Gli alleati devono sostenere l’operazione e si adeguano alle fake specifiche. Tutto qui. Criminale ma vero.

 

 

 

 

Tutta la comunicazione di questi giorni in area NATO ha cercato di sminuire l'immagine di Putin arrivando anche a superbufale come quella attribuita a Joe Biden. In raltà l'ex vice Obama non ha detto niente di strano, è solo una ipotesi sull'atteggiamento strategico russo. Ma qualche pecora belante è arrivata al punto di chiedere un incontro con l'ambascitore americano facendo così ricordare agli italiani che l'ambascitore USA lo scorso anno, in piena campagna referendaria entrò a gamba tesa per il Sì.

Quella fu un'ingerenza reale il resto sono chiacchere.

In proposito mi diverto a ricordare che Confindustria presentò uno "studio" secondo il quale se avesse vinto il NO ci sarebbe stata una decrescita del PIL di 4 punti in tre anni...

 

12 dicembre 2017

Oggi i gionaloni cantano la loro parte ma con una insolita reticenza de La Repubblica. Forse gli interessi della proprietà e la formazione agnelliana del direttore incidono sulla scelta redazionale, sta di fatto che il quotidiano celebra la vittoria di Putin e, in sintonia forse casuale con il New YorkTimes, si chiede nel corpo degli articoli se il regime di Assad sarà ora in grado di affrontare la sfida della ricostruzione. Anche Avvenire canta il coro sottovoce ed evidenzia le nuove opportunità di business che si offrono ora alla Russia.

 

Il tiro è centrato sulla figura del caturato, piantonato in ospedale, al quale fanno dire tutto, da ISIS alla vendetta anti israeliana. In realtà non hanno altro, ma devono tenere alto il tono allarmistico. Il deflusso è stato ordinato e non ci sono state vittime da panico. Viene confermato, senza enfasi, che la  bomba è stata detonata prima di quanto si aspetasse il terrorista.

 

 

 

 

 

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30 novembre 2017 4 30 /11 /novembre /2017 19:14

 

 

 

 

Ugo Facco De Lagarda, autore de IL COMMISSARIO PEPE, lo scrisse su richiesta amichevole dell’editore vicentino Neri Pozza che lo pubblicò per la prima volta nel 1965. Successivamente seguirono altre edizioni, tra le quali quella della casa editrice GIANO del 2009.

 

La mia generazione, che all’epoca non lo lesse per niente, venne a conoscenza della tematica che esso tratta attraverso il ben più famoso film omonimo interpretato da Ugo Tognazzi. In esso l’attore, diretto da Scola nel 1969, interpreta il ruolo di un poliziotto che deve condurre, un po’ controvoglia, un’inchiesta di buon costume nella città di Vicenza. Egli la porta a termine ma alla fine accetterà l’insabbiamento e si farà trasferire perché i personaggi coinvolti stanno molto in alto. E la mesta tranquillità cittadina, per quanto moralmente corrotta, non andrà turbata.

Film e libro sono un po’ diversi perché nel romanzo alla fine è il commissario stesso a distruggere il fascicolo per non far nulla e se nel film c’è malinconia e satira di costume, nel romanzo c‘è invece rassegnazione e addirittura, a mio giudizio, un po’ di paranoia. Ma entrambe le opere sono di qualità e l’ispirazione è molto realistica.

Il romanzo, che ho letto con piacere e curiosità pochi giorni orsono, va considerato un giallo come il Pasticciaccio di Gadda o La donna della domenica di Fruttero e Lucentini. Ovvero romanzi che attraggono anche per il contesto realistico che descrivono. E’ fatto di interrogatori che si svolgono in sordina e buone maniere, e il commissario Pepe, che nonostante il cognome è un vicentino, per mantenere la riservatezza anche in questura si insedia per quindici giorni nella casa della sua donna, Matilde, mandandola per un po’ a stare a Milano. Ma via via che procede nell’inchiesta il povero commissario si trova sempre più accerchiato da un malcostume sessuale diffuso e protetto.

La vicenda viene collocata tra il 10 Aprile e il 5 Maggio 1964. In quell’arco di tempo cadono due festività importanti che normalmente si caratterizzano per commemorazioni e cerimonie pubbliche impegnative. Esse avrebbero potuto offrire al narratore l’occasione per descrivere l’ipocrisia di un ceto politico amministrativo cittadino corrotto dentro ma perbenista fuori. Ma l’autore non ha colto tale opportunità e non ne parla. Io non escludo però che inizialmente egli possa averci pensato altrimenti non si spiegherebbe la collocazione temporale scelta. Forse all’epoca, quando la politica ancora non interessava ai lettori, si è preferito lasciarla stare. E ne è uscito un racconto in cui sono descritte le nostalgie per il fascismo in ambienti religiosi e i torbidi intrecci di corruzione sessuale tra le famiglie bene della città. La città ovviamente non è una metropoli e trasuda provincialità. In essa, a differenza della situazione odierna la corruzione sessuale non è legata tanto al denaro quanto piuttosto ad una forte bramosia di “esperienze e sfoghi” e in questo si vede che la storia narrata è un po’ datata e non riproponibile.

Dal punto di vista della scrittura va detto che ci sono riferimenti sessuali anche espliciti, cosa rara all’epoca ma non sono efficaci come quelli di Fruttero e Lucentini che verranno sette anni dopo, nel 1972, stabilendo una contaminazione tra giallo ed erotismo che farà scuola. Inoltre, come osserva Alessandro Scarsella nella postfazione dell’edizione che ho letto, anche rispetto alla tipologia tipica del giallo vi sono anomalie come quella di coinvolgere nella sfera dei colpevoli la stessa donna del poliziotto; contravvenendo in tal modo uno stereotipo narrativo che resiste tutt’oggi (es. il commissario Montalbano).

 

                                                                                      **

 

Nel contesto vicentino sia il libro che il film non vennero accolti con favore. Ne riferisce Pupillo ad esempio nel suo “Il pesciolino rosso” laddove descrive l’attacco pesante del foglio cattolico locale La Voce dei Berici, che disconosce la storia narrata ne Il commissario Pepe, attribuendogli l’intento di voler colpire una provincia ancora sana, nella quale anche la stessa “contestazione” si richiama alla matrice del cattolicesimo.

Il riferimento è alle battaglie giovanili come quelle sulla obiezione di coscienza che ebbe risvolti interessanti proprio a Vicenza dove nel 1965 il Procuratore della Repubblica fece sequestrare con l’accusa di vilipendio delle forze armate il libro Appunti sulla Naja. Tale libro era stato scritto da Giuseppe Gozzini, primo obiettore cattolico, e pubblicato dalla casa editrice vicentina LA LOCUSTA, di Rienzo Colla.

 (Guido Crainz, Il paese mancato, pg 114)

 

 

                                                                                          ***

 

Ad un lettore valdagnese come me non può mancare la tentazione di cercare tra le pieghe di questa storia qualche allusione alla famiglia Marzotto che nel 1965 era molto in auge. Ma non c’è alcun riferimento e anzi l’intreccio tra contesse e curia vescovile ivi alluso allontana ogni possibilità di riferimento alla illustre famiglia valdagnese la quale com'è non non coltivava paticolari relazioni clericali. Tuttavia è opportuno notare che solo otto mesi dopo l’uscita del film avvenne la vicenda Casati Stampa.

In conclusione direi che la lettura di questo vecchio romanzo è ancora piacevle perchè ben scritto e perchè, soprattutto nella parte iniziale, offre ancora una descrizione suggestiva della cultura e dello stile di vita locali. Ma a cinquant'anni di distanza appare come limite pesante la totale assenza, in quella descrizione, de "i schei"  che sono fattore identitario portante del vicentino attuale.

Una cosa che trovo senz'altro indovinata invece è la copertina dove si mosta una donna vista dal basso mentre sale le scale. Mi risulta indovinata perchè richiama il verso di Fabrizio De Andrè che dice "... a vederla salir le scale/fino a quando il balcone è chiuso".

 

Ma soprattutto invita ad immaginare cosa ci sia sotto, che è esattamente ciò che scopre il commissario Pepe.

 

 

 

 

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30 ottobre 2017 1 30 /10 /ottobre /2017 21:24

 

 

 

Tra le commemorazioni di Caporetto, nel centenario della disfatta, leggo quella di Filippomaria Pontani. Mi piace molto e prendo appunti.

 

Egli rilancia l‘attualità del libro a suo tempo scritto da Curzio Malaparte, uscito inizialmente nel 1921. Quel libro, nel caratteristico stile di un autore passato alla storia per l’indipendenza di spirito e l’enfasi polemica in favore della verità, nella prima edizione portava il titolo Viva Caporetto. Ma evidentemente aveva un sapore polemico che l’establishment non fu in grado di tollerare e fu sequestrato e ristampato. Esso uscì pertanto con un testo riveduto e rabbonito che portava il titolo del La rivolta dei santi maledetti.

Anche questa versione però non piacque e dopo un paio d’anni con il consolidamento del fascismo esso venne risequestrato. Il punto critico infatti dell’analisi di Malaparte è la vera motivazione di quella che è ancor oggi la peggior sconfitta miliare della storia d’Italia. Si sarebbe infatti trattato di una rivolta di popolo, il popolo delle trincee. I militari avrebbero messo in atto una vera e propria rivoluzione. Volontà di denuncia delle inutili stragi, sabotaggio e disobbedienza agli ordini: questo fu Caporetto secondo Curzio Malaparte. Da qui il termine disfattismo. Che non significa altro che “dire la verità”. Il concetto, scrive Pontani, sarebbe stato espresso nientemeno che dal Comandante della IV Armata, generale De Robilant.

Alla luce di questa visione trovo più comprensibile il famoso comunicato di Cadorna che dava l’intera colpa della rotta alla codardia dei soldati italiani. Una insolita presa di posizione che stride con l’impostazione austera e verticistica di Cadorna il quale aveva sempre sostenuta l’idea che i comandanti dovessero sempre assumersi meriti e demeriti dei sottoposti.

In ogni caso, destituito Cadorna, Diaz rivitalizzò l’armata mettendo al centro della propria azione non l’élite militare che era stata responsabile delle inutili stragi degli anni precedenti, ma gli ufficiali di trincea, coloro che avevano condiviso l’insensatezza e l’orrore delle precedenti carneficine.

 

                                           ***

 

L’approccio di questa analisi dei fatti di Caporetto, ci ricorda Pontani alla fine dell’articolo, è lo stesso di Emilio Lussu nel suo famosissimo Un anno sull’altipiano, ma la differenza sta nel fatto che questo non fu scritto a bocce ferme bensì a caldo. Fu una operazione di “verità in presa diretta” che finì per interpretare e favorire il risentimento dei reduci. Un risentimento sociale di popolo contro la casta che si convertì in grande viatico per il fascismo.

Questa visione della disfatta fu censurata e repressa dalla propaganda del ventennio successivo e ancora oggi non costituisce approccio sereno negli ambienti storiografici, ma uno sguardo più sobrio di quell’enorme atto di dissidenza è doveroso. E quel libro ne costituisce documento utile.

 

 

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15 ottobre 2017 7 15 /10 /ottobre /2017 20:31

 

 

 

 

L’anno scorso in Novembre LA NAVE DI TESEO, ovvero la casa editrice indipendente voluta anche da ECO in opposizione al cartello “mondazzoli” e diretta da Elisabetta Sgarbi, sorella del superloquace Vittorio, ha pubblicato A ESPIA, un romanzo col quale il supergrafomane Paulo Coelho celebra la memoria di Mata Hari nel centenario della morte.

L’opera vuole essere un romanzo e non una biografia per cui risulta piuttosto libera anche se di fatto veicola un attinente racconto della vita di una donna mitizzata per la sua supposta bellezza.

 

E’ opportuno premettere che lo spionaggio è sempre esistito. Ciò che sta cambiando oggi è semmai l’atteggiamento morale nei confronti di esso. Oggi un prezzolato delatore, un mentitore professionale, o un criminale di guerra tende ad essere eroicizzato, mentre le vittime di quell’opportunismo amorale vengono presentate come semplici danni collaterali.

 

Forse per questo uno scrittore di grido come Coelho romanzeggia di nuovo la biografia di una prostituta che vendeva informazioni captate alternativamente tra i letti di Parigi e Berlino seducendo ufficiali e ministri della Grande Guerra.

 

IL suo approccio è, tra l’altro, innocentista. Per lui Mata Hari era una grande attrice di spettacolo che vendeva l’amore per passione, come Bocca di Rosa direi, e tra una cosa e l’altra le capitò anche di scambiare informazioni. Più che altro per salvarsi la vita dalle spietatezze dei servizi d’informazione militari che la ricattavano.

 

La trovo una visione falsamente ingenua. Una visione che, in tempi di emancipazione femminile, può sedurre qualche decina di migliaia di lettrici o lettori disposti a spendere qualche decina di euro per un libro da vacanza.

Per me la verità è un’altra. E ho la fortuna di leggerla in un libro degli anni trenta, ormai senza copertina che appartenne a mio suocero e si trova oggi fortunosamente ancora in casa mia. Ovviamente nulla mi dice che la verità sia proprio quella, ma mi seduce.

 Si tratta di LE GRANDI SPIE , di H.R. Berndorff, che si può trovare anche in vendita sulla Rete in edizioni più eleganti di quella che posseggo io.

 Il libro si occupa di una quindicina di casi spionistici WW1 e, al centro, si occupa di Mata Hari, danzatrice, cortigiana e spia.

Il testo concede molto al mito della sua bellezza ma almeno non indulge in tentazioni innocentiste. La descrive con scarso realismo, basandosi ovviamente sulle fonti dell’epoca e ne produce una biografia scevra di apprezzamenti femministici. È solo una giovane donna meticcia olandese che fugge da un marito ostile lasciando la figlia per recarsi a Parigi ove ha l’avventura di vivere un particolare successo prima come prostituta di una casa di tolleranza di buon livello, poi come subrette spogliarellista in spettacoli orientaleggianti. Spettacoli che la portano in giro per quell’Europa che sta preparando, forse inconsapevolmente, WW1. Successi, uomini e disavventure la porteranno poi a riunirsi con la figlia e a morire fucilata con accuse si alto tradimento.

 

 

Vediamo quindi la ricostruzione di Berndorff.

Il 30 Marzo del 1895 la giovanissima Margareta Zelle, figlia di un giavanese sposato con una benestante olandese altolocata, sposa a L’Aja il capitano Mac-Leod (personaggio violento incline alle orge) con un matrimonio combinato. Se ne vanno ai tropici (Sumatra e Java) dove la giovane sposa impara la cultura e le mode espressive orientali. Ciò le si rivelerà più tardi essere un vero e proprio vantaggio strategico quando farà la ballerina spogliarellista nelle capitali europee. Quando, nei primi anni del nuovo secolo, nasce la figlia Jean Louise il capitano si è già giocata la carriera, il matrimonio è già in pezzi e i due son già rientrati in Olanda. Lei lascia tutto e se ne fugge a Parigi ove trova lavoro (forse dopo un breve periodo fatto in strada) in un casino. All’epoca la prostituzione, che era legale, era subordinata ad un sistema di visite mediche che, regolarmente documentate dal dr. Bizard, costituiscono la principale fonte documentale per quel periodo della vita di Margareta. Muore il marito, nel frattempo rientrato in ISCOZIA e inseguito dai debiti, e la figlia le si ricongiunge dopo che Margarete, grazie ad un amante facoltoso, ha acquistato casa a Nevilly (pare una specie di castello appartenuto anche alla Pompadour). Lei sfonda sulla scena dello spettacolo come “danzatrice indiana”. Nasce Mata Hari (nome d’arte approssimativamente orientale che evoca il concetto di “occhi del giorno”). Mata Hari frequenta Champs Elisées, Folies Bergères e anche La Scala di Milano. Compete con personaggi come La Bella Otero, Ida Rubinstein e niente popò di meno che Isadora Duncan. E quando l’amante si rivela un industriale fallito lei i soldi ha già imparato a farseli da sola. E’ una diva europea quando cade, o meglio cattura, nel suo letto il marchese Pierre de Montesac, alto, biondo (e forse) con gli occhi azzurri ma in ogni caso riccamente inserito negli alti livelli della Guardia parigina. E questo incontro, che la condurrà anche sulla scena berlinese, rappresenta il primo passo nella carriera di Mata Hari come spia internazionale.

Infatti mentre gli atti del processo non chiariscono chi sia realmente questo personaggio aristocratico, la verità emergerà nel 1927 quando Netley Lucas, autentico Arsenio Lupin, scriverà le proprie memorie per ammorbidire il carcere. Costui infatti, con un passato famigliare ricco e controverso, era un poliglotta avvezzo ai furti d’albergo, furti nei quali non sparivano solo oggetti di valore, ma anche preziose informazioni. Fu anche pilota e frequentatore assiduo di competizioni aviatorie. Vi sono tracce di lui con la falsa identità di “comandante russo Marzaw”. Insomma una mitica spia del periodo crepuscolare. Con lui Mata Hari lascia Parigi, svende in fretta il mitico castello e si trasferisce ad Amsterdam. Siamo nel 1914. In quell’anno l’Intelligence Service (Inghilterra) trasmette all’alleato francese una lista informale di sospette spie filo tedesche e in tale elenco figura già Mata Hari. Ma i Francesi, che in un primo tempo la fanno pedinare, non riscontrano. Torna a Parigi acclamata dalle folle nella primavere del 1916. Decide e ottiene di fare l’infermiera nell’ospedale di Vittel ove sta sorgendo il più importante campo di aviazione dell’esercito francese. Ammaliati ufficiali ed aviatori dipendono dal suo fascino per vari mesi, fino a quando il capitano La Doux (si, quello dell’Affaire Dreifuss) la fa prelevare al mattino presto da due agenti nella sua camera d’albergo. Minacciata di espulsione, riesce invece ad ottenere l’incarico di spiare in favore dei francesi. Da questo momento Mata Hari è un agente doppio in mano alla Francia.

La più importante spiata in favore dei francesi si trova da lei stessa svelata agli atti del processo. In tale circostanza infatti Mata Hari cercava di salvarsi dimostrando di aver aiutato, anziché tradito, la Francia rivelando un’informazione, carpita con l’amor venale, relativa alla vera posizione di due sottomarini tedeschi che vennero effettivamente affondati dai francesi davanti alle coste marocchine. Per questo caso l’avvocato difensore riuscì anche a produrre documentazione relativa alla “grossa somma” di denaro pagata dai francesi a Mata Hari al fine di ottenerla in poche ore.

Ma non le fu bastevole. Caduta nel tranello delle “cinque lettere” architettato da La Douxe, Mata Hari fu alla fine identificata per essere l’agente H21 dello spionaggio tedesco e finì il processo a porte chiuse che si tenne il 24 e 25 Luglio presso il Tribunale di Guerra e le prigioni femminili di Sainte Lazare, con la condanna a morte.   

Questa fu puntualmente eseguita il mattino del 15 Ottobre 1917. Una circostanza che il particolare trasporto letterario di Berndorff così commenta: “Uno solo dei colpi sparati dai soldati la raggiunse e le trapassò il cuore.

Come dire che la bellezza di quella donna era tale da togliere il coraggio ai soldati di oltraggiarne il corpo. L’allusione è coerente con lo stile narrativo di una biografia che ispirò negli anni trenta gli sceneggiatori del film di George Fitzmaurice MATA HARI con Greta Garbo. In tale film, osserva Morando Morandini, Greta Garbo, seppur inadatta alla parte dà prova del suo fascino. Ma, precisa, “nella sequenza del ballo, un po’ lasciva ”- siamo nel 1932 -  “fu usata in parte una controfigura”.

 

 

 

Di tutta questa epopea mistificatrice fanno giustizia le vere foto. Venute alla luce nei decenni successivi, dalle quali si ricava la vera immagine di Margarete. Un donna semicreola dai capelli scuri che seduceva più con le movenze che con le forme di un corpo relativamente modesto.

 

 

  

 

Qualcuno insinua che ci fosse morfina nel suo ultimo tè.

 

 

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