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28 agosto 2011 7 28 /08 /agosto /2011 00:56

mediterranean-sea-map-israel-lebanon-jordan-500x282.jpgLa notizia risollevò il mondo e le trivelle petrolifere ripresero il penetrante moto carsico dell’era globale. Non fu prospera l’alba del dittatore, sorpresa dalla violenza delle moltitudini, e il liquame nerastro ricoprì, come il velo della morte, ogni giovane speranza di civiltà. L’emittente dell’Alba Dorata annunciò il rimbalzo del prezzo dell’oro e gli indici di borsa si rinvigorirono alimentandosi delle dichiarazioni svenanti del segretario della MANTO, unite a quelle del presidente di turno dell’ OMUS le quali sopraggiunsero accavallate al time-break delle borse orientali. Ottimo tempismo, osservarono i commentatori, indice delle nuove tendenze evolutive dello scenario globale. L’euforia colse soprattutto i sogni francesi, che tanto avevano trepidato, ma portò anche il soffio del sollievo sui tavoli del numero quattordici di Fighting Street, nella City, ove da pochi giorni erano state ripulite le tracce ematiche del ministro. A Langley invece il capo dell’apposito ufficio stampa sorrise cinicamente rileggendo la bozza di comunicato da suggerire allo staff della Casa Bianca e, apportata l’ultima modifica, schiacciò il tasto “ENTER” accompagnandosi con un gesto scaramantico nella zona inguinale. Neanche quella mail, of course, sfuggì all’ IFCS (Intercepting Fighting Communication System, detto semplicemente Cluster Brother tra gli addetti ai lavori) e venne letto con apprensione dai tecnici del mahafna center di Yafo Dysra 1015, Tel Aviv. Costoro, intuendone l’importanza, attesero la conferenza stampa del presidente degli Stati Uniti Emisferici per confrontare i contenuti dello statement con quelli della bozza stessa. E questa vecchia, ma ancora molto efficace, tecnica di analisi del contenuto permise loro di individuare le discrasie e dedurne, con estrema soddisfazione, le occulte motivazioni.

 

*

 

Nelle ore tardo mattutine i principali network mandarono ripetutamente il video shock che conteneva le immagini con le tende beduine incendiate sotto un cielo notturno costellato di elicotteri. Si vedevano le truppe speciali berbere che maltrattavano le madri con i bambini in braccio mentre dal sovrastante elicottero venivano monitorate le loro dinamiche cerebrali e quando le frequenze raggiungevano la soglia rossa si vedeva partire il raggio di fusione. A questo punto non sempre c’era la telecamera sul campo che catturava le immagini del berbero morente, ma quando questo avveniva lo spettacolo era elettrizzante e veniva accompagnato dal ritornello hard rock della cantante globale Princess Pyaga  fino alla interruzione pubblicitaria.

 

Alcuni commentatori dell’Emittente Araba dissero che si trattava degli stessi elicotteri (o comunque dello stesso modello) che avevano mandato in fusione ossea i dimostranti armati di Tottenham dieci giorni prima. Il loro temibile “Hook eye”, ovvero il dispositivo elettronico che permetteva di individuare le frequenze cerebrali dei sovversivi, era costantemente on-line col sito MANTOfacebook dove seguendo in tempo reale i sovversivi muoversi per le vie metropolitane il pubblico poteva votare via SMS quale colpire. Dopo ogni fusione un analizzatore integrale del DNA individuava l’identità del sovversivo carbonizzato e riproduceva uno scenario rendering di ciò che il soggetto avrebbe potuto fare se lasciato in vita: stupro, violenza di gruppo, sfondamento di vetrina con rapina, uccisione di poliziotto o semplice rapina che fosse. Le statistiche dimostravano che il pubblico (target mediano) sceglieva preferibilmente l’uccisione di poliziotto perché alzava la tensione di piazza, elettrizzando la trasmissione televisiva. L’escalation però aveva un limite perché quanto più aumentava l’audience tanto più frequenti erano le inserzioni pubblicitarie e la conseguente, parziale, demotivazione. Da qui la tendenza del feedback sanguinario proveniente dal pubblico a stabilizzarsi su un livello di poliziotti  uccisi che era ritenuto “accettabile”, secondo la valutazione degli analisti di marketing pubblicitario. Un po’ più complesso invece il problema relativo all’atteggiamento della fascia di audience riconducibile agli adolescenti e alle persone molto anziane; qui infatti predominava la tendenza a risparmiare il sovversivo intenzionato allo stupro. Ciò era dovuto, secondo le analisi degli psicologi, al desiderio che lo stupro avvenisse in diretta. In quest’ultimo periodo, durante il quale le dirette sui riots erano aumentate di molto, l’interesse per gli stupri in diretta era in crescita e gli operatori non sapevano ancora come sfruttare il trend. La cosa inoltre non era del tutto gradita dagli esperti del ministero degli interni per via delle grane che ciò procurava nelle relazioni con le varie chiese, in particolare la cattolica e la metodista, ma anche qualche imam cominciava a tuonare nelle moschee. Sul lato opposto alcune associazioni di stampo laicista ad approccio edonistico avevano dato corso ad una campagna di petizioni web che richiedeva il diritto di download dei filmati in nome della trasparenza dell’informazione. Inoltre la trasmissione della BBC “war and riots at home” era la più seguita. Insomma si profilava all’orizzonte una fase di scontro politico sull’uso pubblico dei filmati “recording propeller”, ma per il momento le mayor pubblicitarie non erano ancora interessate ad un uso promozionale di tali scene.

 

La polemica durò sulle headlines per trentasei ore, ma dopo fu surclassata da un nuovo scandalo. Il ministro degli interni venne accusato di conflitto di interessi sui rotocalchi di opposizione. Il capo del suo staff era infatti risultato membro del Consiglio di Amministrazione della società di capitali FSB security network.

I termini del problema erano in sintesi questi: durante il secondo giorno di tumulti l’informazione televisiva delle cinque pomeridiane lanciò la notizia relativa ad una presunta informativa del ministero degli interni nella quale si dichiarava esistente il pericolo di attentato dinamitardo islamico nella metropolitana. La notizia puzzava di balla strumentale perché era evidente a tutti che durante i riots la via di scampo regina degli insurgers era la METRO che li proteggeva dal monitoraggio via elicottero. Per questo le agenzie che avevano fornito il sistema di telecamere security della metropolitana londinese sentendosi danneggiate insorsero immediatamente e la notizia venne denunciata come un bluff repressivo già nei successivi telegiornali delle sette di sera. Il risultato fu che nei notiziari della notte il ministero degli interni smentì l’allarme metro. Libertà d’azione, agenzia di rappresentanza degli interessi del consorzio FSB, (Freedom Security Business) una sorta di Confindustria delle imprese di sicurezza inglesi, ringraziò il ministro nell’edizione notturna e rese pubblici i risultati di uno studio sull’efficienza delle telecamere metro. Il titolo FSB ebbe un’impennata di borsa nel giorno successivo e da qui lo scandalo, alimentato probabilmente dai rumors diffusi dalle agenzie concorrenti.

 

**

 

In questo clima avvenne l’assalto al civico quattordici di Fighting Street, nella City. I fatti vennero ricostruiti fedelmente nelle settimane seguenti grazie all’inchiesta svolta per conto della Società generale di Assicurazioni contro i danni da crisi di governo. Che vennero così ricostruiti: nel momento di più alta intensità del big riot, che avvenne lo ricordiamo, nel terzo giorno dei disordini verso le sei pomeridiane, un manipolo di insurgers incappucciati si staccò dal gruppone che stava sfondando le vetrine d’ingresso dell’ipermercato PHAMMY il quale a sua volta si trova, come è noto, subito di fronte all’uscita della metro, e si diresse con estrema rapidità nella residenza del ministro. Il personale di sorveglianza della residenza ministeriale si trovava in quel frangente in fase di stand by perché, stando a quanto emerso dall’inchiesta, in caso di riot il comando operativo passa automaticamente al comitato Urban security, cioè l’autorità cittadina, la quale risponde a sua volta direttamente al ministero dell’interno che controlla i corpi speciali in elicottero. Si era pertanto entrati in quello che gli esperti definiscono un caratteristico shifting-loop, ovvero quel paradosso operativo per il quale, in questo caso, lo staff del ministro degli interni non poteva più comandare direttamente i propri subordinati addetti alla sicurezza della propria abitazione e famiglia, ma per farlo doveva passare attraverso, appunto, l’Urban security. Il risultato fu che, col personale immobile, in dodici secondi vennero esplose quattro bombe accecanti e in meno di un minuto gli insurgers avevano raggiunto i locali upsters e stringevano il collo delle due figlie del ministro, mentre un altro filmava col telefonino la moglie discinta che usciva dal bagno con la sigaretta in bocca, del tutto ignara di quanto stava accadendo. Già alle diciannove, col filmato disponibile su You Tube, si dava notizia delle dimissioni del ministro, ma il peggio venne alle undici, quando, nel compianto generale, le agenzie dovettero lanciare la notizia del suo suicidio.

 

***

 

Qualche decina di minuti prima era scattata per la prima volta nella storia la procedura UGCHAT.CC, (urgent global challenge threat conference call) che era stata riservatamente messa a punto nell’ultimo G20 per fronteggiare un eventuale minaccia extraterrestre – con il dissenso del Brasile – e che prevedeva la video conferenza di consultazione immediata dei capi di stato in caso di grave crisi globale. Sui tablet dei vari capi di stato, che si sintonizzarono quasi tutti in pochi minuti pur trovandosi nelle situazioni più disparate, apparve subito il volto provato del primo ministro britannico. Costui notoriamente non aveva le palle di un Tony Blair e men che meno quelle di Margaret Thatcher, ma pur mostrandosi debole e provato ebbe la forza di accusare la lega antidemocratica del Libero Nordafrica di organizzare gli immigrati e finanziare i riots al fine di destabilizzare il governo britannico e rinegoziare i piani di fornitura del gas ai paesi del fianco SUD: Grecia, Spagna e Italia. I capi di stato convenirono che, qualora fosse stata debitamente provata, tale accusa avrebbe meritato un immediato intervento regolatore e a tale scopo – con il dissenso del Brasile – venne decisa la convocazione urgente del consiglio di sicurezza OMUS al fine di formalizzare un mandato per la democratizzazione urgente del governo della Berberia Libera. I leaders di Grecia, Spagna e Italia  raccomandarono cautela lamentando i pericoli di ritorsione immigratoria, ma si limitarono ad auspicare una soluzione rapida della crisi.

 

Non fu prospera l’alba del dittatore, oscurata dagli sciami di elicotteri, e la notizia risollevò il mondo. Il presidente degli Stati Uniti Emisferici intervenne verso la tarda mattinata con un discorso che commosse tutti passando alla storia come lo “statement dei quattro dollari l’oncia”. La Cina annunciò una nuova politica di interesse verso il debito sovrano dell’area euro e Israele, soddisfatta per l’agognato smobilizzo delle riserve auree stipate sotto il massiccio dell’Atlante, annunciò la ripresa delle trattative di pace con l’Autorità palestinese.

 

Il penetrante moto delle trivelle riprese, e il suo carsico pulsare indicò al mondo il nuovo ritmo dell’era globale.

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26 agosto 2011 5 26 /08 /agosto /2011 22:49

Deserto-di-pietre--Paul-Klee-1933.jpgQuando sono lotte sono botte si diceva ai miei tempi, ma oggi ancor più di ieri ci sono quelli che quelle lotte le riempiono di armi. Ed è questo l’aspetto che non va. Gli speculatori di un sistema che rischia il crollo ogni santo giorno ci stanno ancora provando dappertutto. E sono più falsi e bugiardi che mai. Quelli come me che sono nella terza parte della vita ne hanno già viste tante, ma il bello deve ancora venire. E sarà ancora adrenalina. Non quella del sabato sera, quella che fa molto più male. Io auguro pace a tutti, perché la pace è veramente una gran cosa, ma so che essa si basa sul fatto che tutti debbono avere almeno un po’ di soddisfazione. E so che se il piatto non è equo prima o dopo piange e alla fine salta. E allora sono dolori. Io sono sempre stato dalla parte di chi lo fa saltare in nome della giustizia e della parità. E so anche che quando il piatto salta devono essere quelli che stanno sotto a farlo saltare, altrimenti non ci sarà un nuovo equilibrio stabile, ma continuerà l’insoddisfazione di chi subisce. Per questo sono contro le bombe che stanno mollando su Gheddafi, dittatore, perché quelli che in Libia stanno cercando di far saltare il piatto in realtà stanno sopra, e temo che quando sarà finita, sperando che finisca presto, quello che resterà cercheranno di chiamarlo PACE, e ci faranno due gran palle, ma sarà solo deserto e insoddisfazione.  Ho appena sentito una eccezionale versione You Tube di “Bella Ciao”, quella del Video pubblicato da Awatef -aka- habiba el aschi, che si può trovare su facebook. Bene, lo suggerisco a quelli che sanno che senza lotta non c’è pace e che l’adrenalina, quella che prende l’anima di primo mattino nei giorni della lotta, fa male, molto male, ma è il prezzo della vita da uomini. Gli uomini liberi e uguali.

 

 Arrivano i NAM di Pietro Colaprico

NAM  è l’acronimo scherzoso che sta per Nonni Armati per Milano. Si tratta di una metafora caricaturale per gli ex sessantottini dei nuclei armati, pestatori degli anni settanta che si metterebbero oggi a farsi giustizia da sé per le strade di una Milano ingovernabile, in mano alle bande della criminalità extracomunitaria. E’ una parodia della moderna società della paura. Un testo leggero, intelligente, ironico e piacevole che mostra la competenza di questo inviato di Repubblica su tecniche e motivazioni ideologiche dei gruppi armati anni settanta. L’ho letto in corriera andando a San Candido col coro. E’ il n° 7 della collana INEDITI D’AUTORE  del Corriere della sera.letture-estive-1.jpg

 

KOSHER MAFIA,  di Luca Di Fulvio

New York, anni venti. Era dura per gli operai immigrati della comunità ebraica. In  questo racconto piuttosto serio, di novantatrè pagine Di Fulvio ricostruisce una realtà durissima, con un mercato del lavoro fortemente competitivo e le lotte sindacali organizzate all’insegna della violenza. Il tutto con un contesto ricostruito in modo realistico e, almeno mi è parso, seriamente documentato. Ottima lettura, un’esperienza che non lascia indifferenti sul piano emotivo e al tempo stesso incoraggia quelli che come me, che nella vita hanno fatto i sindacalisti, a non perdere la fede. Ma non è un racconto sulle lotte sindacali, sarebbe riduttivo, è molto di più. C’è l’identità ebraica, con la religione, la cultura e la critica “laicista” ad entrambe queste cose; direi che tutta la narrazione è addirittura ossessionata dal tema dell’ebraicità. Qui tutto è ebraico, il capitale, il lavoro, i gangsters fino alle caramelle al limone e toffee e lo zuccotto yarmulke. E fin qui siamo dentro le coordinate narrative che vengono annunciate già dal titolo, ma poi c’è l’immigrazione, come dramma, il cambio e il conflitto generazionale, la violenza, il sesso a pagamento ecc. ma quello che più conta per chi ama leggere, è il fatto inequivocabile che in queste pagine viene documentata l’ottima indole narrativa dell’autore. Lo terrò d’occhio… Questo Luca Di Fulvio è efficace, duro e tutto sommato costituisce una gran sorpresa.

 

L’amore quando c’era, di Chiara Gamberale

E’ il n° 8 della collana INEDITI D’AUTORE del Corriere della sera.

La Gamberale ha due anni più di mia figlia e mi ha lasciata l’impressione di essere una psicologa esperta di relazioni amorose con taglio adolescenziale. Collabora con la RAI e con Radio 24. Qui c’è un bel raccontino di sessanta pagine un po’ diluite, ma interessanti perché riproducono una relazione/revival tra due ex attraverso le loro comunicazioni via mail e SMS. La comunicazione via Mail assume una specificità originale perché ci si accorge che per comprendere bene il contenuto del messaggio occorre decodificare bene ogni volta la parte relativa ad indirizzo, data, oggetto e soprattutto emittente ricevente.  Si potrebbe definire, in modo roboante, un romanzetto epistolare moderno.

 

La targa, di Andrea a Camilleri

Piacevole come sempre questo racconto è un po’ una sveltina ambientata durante il fascismo. Mostra le contraddizioni delle periferie fasciste e, come  sempre, i vizi e le debolezze dei siciliani di Vigata e Montelusa. Non manca il solito, magistrale, fondo di ironia  e la vicenda ha anche una accattivante contestualizzazione.

 

La prospettiva CelesteMASSIMO CARLOTTO, Il Fuggiasco.

Ero in debito di lettura con questo autore, maestro di noire dal passato complicato, e ho finalmente letto il suo primo libro. Ho avuto conferma che ciò che più intriga nella sua narrativa è la latenza della sua biografia, il suo curriculum si direbbe in altro contesto, perché rende maledettamente credibile ciò che scrive. Se Giorgio Pellegrini, personaggio di“Arrivederci amore ciao” uscito dieci anni fa e di “Alla fine di un giorno noioso”, (del quale ho scritto il mese scorso) dice: “Ogni tanto frugavo tra i dischi e pescavo quelli che avevano fatto la storia della mia generazione e che ascoltavo quando ero una giovane testa di cazzo e volevo fare la rivoluzione.” è ben difficile che un lettore il quale abbia già letto “Il Fuggiasco”, non pensi a Carlotto stesso e al suo passato. Io l’ho letta pensando subito ad un bulimico Carlotto nascosto a Città del Messico o a Parigi o in Spagna con una delle sue tante identità false da “latitante per caso”, quale egli è stato negli anni ottanta, mentre ascolta dischi italiani durante una brutta crisi d’ansia. 

 

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31 luglio 2011 7 31 /07 /luglio /2011 20:54

Nesi-serio.jpgUna enorme fascetta copre quasi tutta la copertina e dice: “VINCITORE PREMIO STREGA 2011 edoardo nesi storia della mia gente BOMPIANI”. Le parole che balzano agli occhi sono “STREGA” e “BOMPIANI” le quali sono accompagnate dal relativo logotipo. Il nome e il cognome dell’autore sono scritti in corsivo minuscolo e con questa copertura viene nascosta quasi tutta la copertina e non si legge più il sottotitolo. Peccato perché esso conterrebbe una frase chiave per farsi una idea del contenuto. Il messaggio di questa fascetta è rivolto al pubblico del franchising librario e ciò che si vuole vendere è soprattutto l’evento Premio Strega 2011, fatto questo certamente rilevante per la nostra vita culturale, ma che a mio avviso non dovrebbe sovrapporsi e oscurare il messaggio letterario. Il target, come si dice oggi, non è il lettore, ma il consumatore, il cui sguardo incuriosito deve essere catturato sottraendolo all’overdose di stimolazioni provenienti dalle scaffalature ormai onnipresenti: uffici postali, autogrill ecc. In passato lo Strega ha premiato gente come GADDA, Pavese, Moravia, Eco ecc. nomi profondamente radicati nella storia della nostra letteratura e sono quei contenuti letterari che hanno fatto grande il Premio, non viceversa. Mi viene a mente il Festival di Sanremo che una volta lanciava canzoni importanti, che diventavano emblemi della cultura italiana mentre oggi, dal punto di vista dei contenuti, è diventato una sorta di cestino dei rifiuti. La sproporzione della fascetta prosegue con l’effetto invasivo anche dietro il libro, ove spicca una foto dell’autore affiancata da due frasi-commento che hanno un contenuto a mio avviso altrettanto sproporzionato. Queste vedono i due più indovinati autori Strega dell’ultimo lustro, Pennacchi e Veronesi (Sandro) sbracarsi in virgolettati commenti destinati poi, alla luce della lettura del testo, a rivelarsi fuori misura. Tutto questo con una foto dell’autore un po’ troppo invecchiato e sofferente per essere uno nato nel novembre del 1964. Nel risvolto c’è infine un’immagine di Edoardo Nesi molto più bellino con tanto di statement della casa editrice, che si trova all’inizio, dove BOMPIANI si dichiara disponibile a sistemare le cose con eventuali aventi diritto sulla foto stessa. 

 

Togliendo la fascetta, cosa non semplice perché è particolarmente invasiva, si scopre una carta patinata con un campionario di tessuti storici in lana e la scritta:”LA RABBIA E L’AMORE DELLA MIA VITA DA INDUSTRIALE DI PROVINCIA”. Tale copertina, che suppongo creata dal marketing Bompiani, ci propone un piccolo campionario di quadrettati e stoffe tartan da British style, che anticipano in qualche modo un tema del libro, la fine di un’epoca tessile, che io, in quanto valdagnese ed ex sindacalista, conosco. Successivamente, nel testo, il tema dei tessuti sarà trattato con serietà e sentimento perché quando Nesi parla di tessuti come ad esempio a pagina 79, (oppure sul cashemire a pagina 57-58 de “L’età dell’oro”) lo fa con competenza e precisione. Qui si riferisce a vecchi “quaderni incartapecoriti” di un ex studente dell’istituto tecnico anni cinquanta, dove le armature per cappotti sono:” un profluvio di idee e colori e accostamenti che oggi strapperebbero gli applausi agli scemi che si affollano intorno alle passerelle delle sfilate e credono davvero che la moda nasca sempre e solo dall’invenzione dello stilista…”.

 

Io ho imparato a leggere ai tempi del “Premio Marzotto”, che era un premio letterario degli anni cinquanta, divenuto poi negli anni sessanta più noto come premio di pittura, e penso che il ruolo di premi debba rimanere legato alla valutazione della qualità intrinseca di un’opera, penso che debba essere solo un aiuto e un riconoscimento all’autore, affinché prosegua, non un fatto promozionale finalizzato al sostegno della redditività dell’investimento editoriale. Altrimenti avremo sempre di più le librerie e/o i bookstores pieni di libri scritti da giornalisti, da cuochi, da sportivi ecc. mentre coloro che scrivono per narrare saranno sempre meno, vincolati e subordinati nel loro scrivere alle strategie commerciali degli editori. Se l’assegnazione di un premio letterario da fatto culturale diventa evento mediatico, gli editori, soprattutto quelli grandi faranno sempre più profitti, ma per i lettori di narrativa rimarranno solo libri scritti da autrici dotate di adeguata scollatura televisiva.

 

C’è quindi anche un altro tema latente che ci accompagna in questa lettura ed è connesso con queste mie osservazioni. Sempre a pagina 79 infatti l’autore tradisce una scarsa considerazione circa il funzionamento del Premio Strega, laddove si lascia scappare questa considerazione: “Nel 2005 sono stato candidato al Premio Strega. O forse è stato candidato L’età dell’oro, non ho mai capito come funziona. Era l’anno in cui lo Strega l’avrebbe vinto Maurizio Maggiani – lo dicevano anche i giornali. E infatti vinse Maggiani.” Sono andato quindi in biblioteca a procurarmi L’età dell’oro e dopo aver finito questo l’ho letto.

Mi pare chiaro no? Il premio l’avrebbe meritato L’età dell’oro piuttosto che questo, che in effetti nella parte finale mi è sembrato un po’ svogliato e raffazzonato. Si tratta del romanzo che nel 2005 ha segnato il Nesi-Strega.jpgmomento chiave di Edoardo Nesi nel suo percorso da industriale a scrittore e, sia pur all’interno di una storia molto pesante e incasinata, ha un carattere un po’ profetico perché prevede il fallimento dell’industria pratese sotto i colpi della globalizzazione, collocandola proprio nel 2010, cioè oggi, come nota Nesi stesso. E’ quello il romanzo che probabilmente meritava di vincere? Forse, nell’ottica dell’autore, è quello il romanzo che avrebbe potuto rappresentare “uno di quei cazzotti che ogni tanto la letteratura sferra al mondo” come di ce oggi Sandro Veronesi. In entrambi i libri comunque si fa riferimento ad un mondo che si sta globalizzando a spese di chi ha creduto nello sviluppo industriale del dopoguerra.

 

STORIA DELLA MIA GENTE non è un romanzo, ma una cosa senz’altro carina, che sta a metà tra il diario letterario e il commento giornalistico. Trasuda amore per la letteratura e per i tessuti, in particolare la loro ideazione, progettazione e realizzazione industriale anche se di piccola azienda, e si occupa della “sua gente” ovvero i cittadini e i lavoratori di Prato solo nella seconda e ultima parte. Niente fiction, niente plot. I nomi, le date sono tutti reali. La storia narrata richiama una riflessione critica sui danni della globalizzazione, tema economicistico trito e ritrito negli anni scorsi ma oggi  riconducibile al tempo scaduto dei rimorsi. La globalizzazione l’hanno voluta quelli che hanno elaborato e firmato i trattati del commercio internazionale e che poi hanno varato le conseguenti leggi. E tutto questo è già stato fatto in buona parte proprio nel periodo che intercorre tra l’età dell’oro e la storia della mia gente. Oggi questo libro, i cui argomenti sono tipici della sociologia giornalistica e a volte non manca di vena retorica, non è un gran ché. Ma è in testa alle classifiche davanti a gente che vende parecchio come la Vargas e Camilleri. Buon per lui. Il punto balordo è che penso che non sia così a causa o per merito dell’autore, ma perché così vuole il contesto politico, mediatico editoriale. E penso infine che Edoardo Nesi sia vittima di questa situazione sia come imprenditore che come scrittore.

 

Detto questo ho trovato interessanti invece le parti in cui Nesi descrive sé stesso in quanto lettore e scrittore, in particolare “L’estate di Fitzgerald” oppure “Tre ricordi letterari” ecc. e la mia lettura è stata veloce e piacevole, anche se tentata da questa mia latente sospettosità, ovvero l’idea che il marketing librario con il suo approccio opportunistico e tutto sommato cinico ed ingannevole, dove gli ultimi soggetti presi in considerazione sono proprio il lettore e l’autore, abbia determinato una sopravvalutazione di quest’opera. Forse hanno giocato interessi politici connessi al contemporaneo varo della legge sul prezzo dei libri, oppure una logica risarcitoria sull’errore del 2005, sta di fatto che “ il sublime canto, sia epico che lirico, dell’industria e del lavoro umano” di cui parla Pennacchi nella fascetta di copertina io non l’ho proprio sentito.

 

 

  

*

Come ho scritto sopra, mi sono letto, seppur velocemente, anche L’età dell’oro, che viene più volte richiamato nel nuovo testo e devo dire che l’ho trovato molto più ispirato, in termini di ideazione narrativa, ma come qualità della prosa penso che successivamente ci sia stato un miglioramento netto. Il problema di questo precedente romanzo è l’infelicità opprimente della condizione narrata. Qui Ivo Barrocciai, l’attempato imprenditore protagonista della storia, è depresso per il fallimento, subisce cure molto dure e conosce Caterine in clinica, dopo tre mesi di frequentazione silenziosa nel parco. Costei è una giovane in cura psichiatrica dopo la sventura di essere finita su You Tube mentre si concedeva in uno sfrenato rapporto sessuale con il fidanzato. Con lei Ivo, che nel frattempo tra le disavventure legali ed economiche diventa malato terminale, vuole una fecondazione recuperando vecchio sperma congelato ecc. Storia complicata con continue scansioni temporali e cambi di narratore. Tutto questo mentre l’Italia, e il mondo intero, cambiano, con immigrazione, delocalizzazione ecc.Nesi età dell'oro

 

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E’ stata in pratica una doppia lettura, che ho portato a termine in più riprese. Ho mangiato tre volte e senza particolari entusiasmi. Il Nesi del 2005 è un po’ problematico, anzi direi che tra trattative camorristiche, sindacali, fallimenti, cure psichiatriche e chemioterapie siamo sul pesante, per non parlare poi delle turpiloquenti descrizioni del video porno di Caterina , ma la oppressività dell’ambientazione viene compensata e giustificata dalle qualità della storia e della scrittura. Pertanto la fame non mi è passata e dopo una lunga passeggiata col tempo minaccioso, durante la quale Barce, il mio cane, sembrava suggerirmi dei funghi, ho mangiato una spaghettata con tonno e olive. C’erano anche dei capperi dissalati che davano un po’ di sprint, ma senza il vino bianco fermo e fresco la nota dominante della giornata sarebbe rimasta cupa. Per farla completa ho ripreso a leggere accompagnato dall’ascolto di un Dimitri Shostakovic, quello del quartetto per archi n°3, particolarmente lento, minaccioso e sofferente con qualche lontana citazione di Mussorgsky. Fino al sonno finale.

Una cosa migliore è stata invece la trota del giorno dopo, accompagnata da un ottimo vino Durello delle colline di Montebello vicentino. Avevo scoperto che Nesi stesso suggerisce (a pagina 232) i Preludi di Scriabin (che lui scrive all’italiana, con la “C”, ma la traslitterazione convenzionale del suo cognome sarebbe Skrjabin) ma ho concluso con “la donna cannone”, sempre su suo implicito suggerimento. La dolcezza con cui viene narrata in quella canzone una tragica morte d’amore mi è risultata più compatibile con la lettura del finale. Un finale alla morfina, ove l’industriale tessile fallito, in un caleidoscopio di film americani circonfonde Caterina nel blu di Klein.Durello-di-Tonello.jpg

 

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26 luglio 2011 2 26 /07 /luglio /2011 14:49

Grace-Slick-troppo-Flower-power.jpgUscito nel mese di maggio scorso, questo nuovo romanzo segna il passaggio di mano del Veneto dai berluscones ai padanos e racconta la vera faccia dell’attuale politica: l’eccellenza del crimine creativo (pg 173). Alcuni personaggi: Sante Brianese è un politico veneto in gran carriera. Uomo di potere, distribuisce appalti agli imprenditori sempre più affamati che lo sostengono e ricambiano in vari modi. Nicoletta Rizzardi è “una ragazzona alta, snella e con due poppe grandi e bianche come il latte” che adesso viaggia sui quaranta e mette a frutto le sue competenze insegnando tutto ciò che sa “in fatto di vestiti, trucchi, profumi e buone maniere” alle prostitute di classe che gestisce. Mentre Michail Aleksandrovič Šolokov è un immigrato russo accorto e senza scrupoli, anche lui nel giro della prostituzione. Si tratta di prostituzione organizzata all’insegna della riservatezza e della discrezione da Giorgio Pellegrini, uomo di un certo stile, protagonista e narratore della storia. E’ un criminale ovviamente, come tutti i personaggi che appaiono nel romanzo. E’ un personaggio già noto a chi segue Carlotto da almeno dieci anni, quando uscì il pluripremiato “Arrivederci amore, ciao” per cui il suo (di Pellegrini) passato di terrorista rosso infame, ergastolano riabilitato a pagamento, viene solo citato en passant in questa nuova storia. Bella storia direi, complessa e semplice al punto giusto, dove gli ingredienti canonici dello standard noir, ovvero il regolamento di conti davanti alla fossa, che ovviamente si trova nel giardino del nemico, ma soprattutto il sesso, la violenza, la prevaricazione e il ricatto sistematici, le sociologie criminali, le tecniche di intimidazione, le armi ecc. scorrono serenamente, di paragrafo in paragrafo, fino a descrivere un contesto pressoché realistico del Veneto attuale. Il punto tragico, ma di grande prospettiva letteraria è che ormai possiamo dire che è tutto vero.

Dice Massimo Carlotto: “Ho scritto questo romanzo per raccontare che oggi la criminalità moderna funziona necessariamente a braccetto con la politica. Cioè la politica è necessariamente un ingranaggio del grande meccanismo criminale. Senza la politica la criminalità rimane ad un livello molto basso e se vuole fare un salto di qualità deve trovare necessariamente una collisione con il mondo della finanza, della imprenditorialità e della politica. Altrimenti non entri nel gran giro degli appalti…”. L’affermazione si trova su You Tube nell’ambito di una intervista registrata durante una presentazione del libro.

 

*

 

Altro protagonista di fatto è il ristorante, chiamato la Nena, che Pellegrini gestisce. Un ristorante di classe, di successo, ove non circola droga, non ci sono venditori di fiori, accendini e mercanzia varia, con atmosfera tranquilla, raffinata ecc. Insomma la Nena è una bella cosa ed è il vero amore del nostro Giorgio Pellegrini, il quale come vedremo ha anche una donna, anzi due, che ama e desidera sinceramente, ma si capisce che questa Nena sta sopra in termini di priorità affettive. Infatti tutta la storia nasce e si svilupperà perché i cattivi vorrebbero portargliela via e trasformarla in una attività di riciclaggio del danaro sporco ndranghetista. In pratica nel dispiegarsi del romanzo questo ristorante vive e pulsa, rischia, si ammala, viene salvato ecc. proprio come un personaggio. Un personaggio riuscito. La Nena è una attività di ristorazione da manuale che però da sola non si mantiene, tanto che Pellegrini integra le spese di gestione con altri proventi: un business integrativo costituito da un “piccolo ma sicurissimo giro di puttane travestite da escort a disposizione di Brianese e dei suoi amici”.

Le povere prostitute, latinoamericane con qualche cinesina, invece non trovano in questa storia il rango di personaggio. Sono figure impersonali che si muovono anonime sullo sfondo della scena. Esse, non vengono trattate male, anzi, con turnazione semestrale vivono da reginette: una botta al giorno sette giorni su sette, lavorano in villette appositamente affittate con assoluta sicurezza e discrezione presso l’agenzia del fratello di Nicoletta, quasi mai in hotel. La loro prestazione costa qualcosa come duemila, duemilacinquecento euro a botta, una notte intera o dieci minuti che sia e di questi “ben duecento” finiscono in tasca della prostituta. Il costo non deve spaventare perché quei soldi non escono dal portafogli del cliente, ma fanno parte della regalìa connessa con l’affare. E cosa garantisce che la prostituta non venga a sapere qualcosa di imbarazzante? Intanto niente telefonini e alla fine dei sei mesi, quando appunto una eccessiva permanenza in Italia potrebbe farle diventare potenzialmente pericolose, ecco che il cinismo e la brutalità  riprendono il comando della situazione e le giovani prostitute finiscono nelle mani di violenti magnaccia maltesi senza scrupoli. Gente che applica il principio secondo il quale:” se una puttana assaggia l’inferno, poi scambierà i clienti per angeli del paradiso”. Da questa vendita che le toglie di mezzo per sempre il nostro Pellegrini ricava il doppio del prezzo di acquisto.

Un bel giro insomma, ben organizzato, un modello che in un Veneto nel quale è “impensabile chiudere un appalto, anche di una misera rotatoria, senza una quota pagata in natura”, costituisce una alternativa al sistema inaffidabile delle escort. Qui per la verità occorrerebbe approfondire la differenza tra escort e puttana. Carlotto infatti distingue, ma non chiarisce. In ogni caso le escort da questo confronto ne uscirebbero male, perché sono diventate “terreno di caccia di giudici e giornalisti” e “non riescono a tenere la bocca chiusa” perché non capiscono che i telefoni vengono intercettati e come se non bastasse “quando capita l’occasione si precipitano nei talk show a peggiorare la situazione”.

 

Con queste premesse la storia si sviluppa descrivendo lo scontro che si apre tra Pellegrini e Brianese quando quest’ultimo fa sparire due milioni di euro in un affare andato male. Poi, in un crescendo di ritorsioni la Nena finisce in mano ai mafiosi calabresi che la usano per riciclare i proventi delle loro lucrosissime attività criminali, ma Giorgio Pellegrini, forte anche del suo passato, non si lascia sopraffare e tiene testa fino alla fine ricorrendo a sottili macchinazioni degne di un manuale strategico, ma anche ad armi e tattiche militari usate senza limiti di violenza. Questa vicenda da thriller nostrano ci porta fino alla fine del romanzo, dove nonostante i morti e i feriti qualche tratto di umanità, a volerlo proprio cercare, si ristabilisce e il lettore può contare su una certa soddisfazione. In questo finale c’è anche la dietrologia più succulenta, precisamente a pagina 174, laddove Pellegrini dice: “Alla fine siete sempre voi che mettete a posto le cose, vero?”

“ A chi si riferisce, signor Pellegrini?” (risponde l’interlocutrice che non rivelo)

“Alle grandi famiglie, a quelle che contano. A quelle che hanno sempre comandato.”

 

Questa frase letta da uno come me, nato e vissuto a Valdagno, suona molto intrigante. E mi fa venire in mente quella sera che ho conosciuto Massimo Carlotto a Recoaro dove era venuto per presentare L’amore del bandito”. Gli chiesi, mentre eravamo tra pasticcini e piatti freddi della Coop, senti, tu nel romanzo Nordest parli di un “Conte Giannino” per caso è quello che penso io?

Certo!, - rispose -  e niente affatto per caso!

 

**

 

Cosa mangiare? E qui viene il bello. La Nena è un ristorante di classe e ha un’organizzazione per fasce d’utenza che viene descritta fin dalla prima pagina. Il racconto poi ci parlerà anche della carta dei vini, ma senza mai diffondersi sui menù. Però il meglio del romanzo, sempre da un punto di vista che definirei “gastro – narrativo”, riguarda qualche suggerimento sugli accostamenti. Ad esempio gli sfilacci di cavallo… con Gewűrtztraminer of course, se non altro per omogeneità territoriale. C’è anche una allusione alla malvasia istriana, che penso sia immanente sul futuro dei nostri brindisi perché la Croazia sta per entrare nella comunità europea. Ma c’è anche il pinot grigio del collio. Quest’ultimo è un vino che mi sconfinferla perché si tratta una mutazione genetica del Pinot Nero che fu piantata con successo nelle aziende Marzotto del veneto orientale i primi anni cinquanta. Allora veniva indicato per il pesce, e oggi con Carlotto, anche con i bigoli in salsa… E chi non è d’accordo?

Un piccolo indovinello può essere invece quello legato al Blue Stilton: cosa gli associamo da bere? Chi ha capito qual è il “vino inadatto” che viene consigliato da Pellegrini a Tortorelli a pagina 99? Per i miei gusti personali direi che la peggior associazione potrebbe essere un moscato, ma lascio l’ardua sentenza a quelli che hanno studiato… Infine la Champagnotta prestige cuvée. Il racconto la definisce “la regina delle bottiglie” e la trasforma nell’arma della vendetta, in realtà è un tipo di bottiglia moderno concepita per l’esportazione, e in effetti potrebbe essere un simbolo della globalizzazione. L’importante però è che mantenga la caratteristica fondamentale: vetro verdone molto spesso e pesante, adatto, oltre che a tenere le bollicine sotto pressione senza scoppiare, a pareggiare i conti con le persone troppo invadenti… Sono d’accordo.Grace Slick for fun

 

Massimo Carlotto è uno scrittore che ormai possiamo definire grande narratore noir semibuonista, caposcuola e leader di tendenza, tutte caratteristiche che vengono confermate e rilanciate anche in questo romanzo. Vai Massimo, adesso aspettiamo l'Alligatore!

 

 

 

 

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15 luglio 2011 5 15 /07 /luglio /2011 08:34

 

Grazie amiche/ici zerocomments. In questi ultimi giorni mi avete visitato più del solito, tanto che l’amministrazione di Over – blog.it, la piattaforma di servizi web che mi ospita, mi ha mandato un link perché prevede una ulteriore crescita di visitatori. Secondo tale proposta potrei aprire le mie pagine a qualche inserzione pubblicitaria realizzando addirittura del denaro. Haimè, spero di non deludere nessuno, ma anche ammesso che fosse vero non mi interesserebbe proprio niente. Io scrivo, ma soprattutto leggo, per altre ragioni.

Come ho già detto all’inizio del blogging, quando commento libri non intendo fare recensioni, ma descrivere la mia lettura perché intendo, o mi sforzo di intendere, LA LETTURA come un’attività molto creativa: qualcosa che produce esperienza. A volte l’esplorazione di un  testo è un’avventura, un’escursione in un territorio fatto di libertà e fatica. E approdare a qualcosa che il testo contiene, magari nell’inconsapevolezza dello stesso autore, è l’emozione più forte. Nei miei migliori momenti di lettura sono come un rabdomante che spazia sopra il testo alla ricerca di ciò che sta sotto e se sento qualche corrente è fatta: godo e fremo da solo, senza ragione, senza spiegazione. Non sempre poi verifico che sotto c’era effettivamente qualcosa, ma mi porto dietro una sensazione che segna quel punto, quell’autore. Una sorta di bandierina emotiva piantata sopra un territorio che in realtà è solo testuale, virtuale se volgiamo. Anche perché in effetti non è che sia un particolare punto del testo che quella bandierina segnala, a colpirmi non è un punto specifico del testo intendendo con questo un luogo fisico di quella carta stampata, ma piuttosto un luogo in senso concettuale, un punto particolare del logos, sopra il quale, come il mio cane Barce quando fiuta qualcosa sottoterra, devo fermarmi e cercare, scavare. Anche se poi, come avviene nella maggior parte delle volte, né io né lui troviamo niente. Ma a volte quelle tracce, quelle bandierine fissate nella mia mappa mentale, sono indelebili e l’autore di quel testo diventa un’entità mitica, legata ad un’esperienza emotiva il cui solo ricordo è gratificante… e se poi c’era effettivamente sotto qualcosa allora abbiamo l’appagamento, lo shock intellettuale. Non uso altri termini di natura sessuale perché violerei la qualità di ciò che voglio dire, ma certo che l’emozione è forte, coinvolgente e duratura. Appagante e perfetta.

Ecco, è questo che cerco con queste pubblicazioni su web, cerco di esternare un’esperienza interiore… mi rendo conto che forse è un po’ illusorio e feticistico e forse si tratta solo di tracce un po’ nevrotiche disperse nella blogosfera come messaggi in bottiglia. In ogni caso è una cosa che mi piace e penso di continuare fin che non mi stufo. E quando cambierò idea, cambierò idea. Un saluto.

 

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12 luglio 2011 2 12 /07 /luglio /2011 22:46

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Con rinnovato moto d’animo il maestro del coro profuse un’intensa atmosfera di solennità al rito di intonazione e poi, nel perfetto silenzio del pubblico, dette l’attacco. Fu l’inizio della più profonda emozione musicale della sua carriera. E fu anche la fine della sua vita terrena. In quel canto infatti la materia sonora si fece soffio divino ed egli stesso divenne pura sostanza spirituale.

 

Il coro amava soprattutto le sacre polifonie tardo rinascimentali, senza peraltro disdegnare le incursioni della musica contemporanea, e si era formato via via nel corso degli anni per lenta selezione di voci e cantori sempre più appassionati, umili e sublimi curando la fusione, l’amicizia e l’armonia con mesta e solare dedizione. Il nome Aetherea Vocis era stato scelto nella piena consapevolezza del carattere assolutamente “cosmico”, nel senso di anti-caotico, del proprio afflato canoro e negli anni il maestro e il suo coro erano divenuti unità imprescindibile. Davanti ad un nuovo brano, mottetto, strambotto o villancico che fosse, nessun cantore mai avrebbe osato l’abbrivio senza il manifesto segno del maestro. Ogni semplice prova era un’esperienza di mistico convivio e talvolta ciò che avveniva dentro, nel profondo intimo di ciascun cantore, aveva del miracoloso perché nasceva, come un unico respiro, dall’ascolto di tutto l’insieme canoro.

Dal canto suo, il colto maestro sapeva bene di avere spiccata qualità musicale e quante volte, sempre con un pizzico di maliziosa consapevolezza, aveva alzato l’intonazione di un buon semitono per dare brillantezza e tensione al canto. Del resto questa era la sua peculiarità: direttore di coro di provata fama, esperienza e passione qual era, egli sapeva motivare lo spasmo del diaframma come nessun altro e sempre otteneva, - come ben vedremo - soprattutto nel settore soprano dell’arco corale, attacchi di sorprendente effetto timbrico. Alcuni maligni componenti della compagnia coristica, o forse semplicemente burloni, amavano attribuire tale abilità al suo malcelato richiamo istintivo verso il tenue sobbalzo del seno di una specifica cantante, ma si trattava più che altro di una scherzosa diceria senza storia. Sta di fatto comunque che, con particolare singolarità, ogni volta che l’attacco riusciva brillante lo sguardo concentrato del maestro volteggiava proditoriamente in quel punto, e solo in quel punto, per rimanervi quella magica frazione di secondo che gli offriva giusto il tempo di indicare l’attacco della seconda voce e procedere poi con eleganza nello sviluppo fugace del brano.

Nel mondo reale della coralità non basta la cultura. Per stare al passo è più utile un gospel, oltreché gli immancabili canti della tradizione montanara, piuttosto che il genere amato da Aetherea Vocis, pertanto nella programmazione degli eventi occorrevano mediazioni che il maestro non sapeva fare e ciò aveva fatto emergere il ruolo di alcune personalità più pragmatiche presenti tra i coristi. In particolare una soprano, Salima Favrit, figlia di immigrati egiziani della minoranza cristiano copta, di seconda generazione, nata in Italia alla fine degli anni settanta. Costei era stata eletta presidente per le sue caratteristiche fondamentali ovvero capacità organizzative, bon ton ed istruzione, fuse in uno charme originale che poco lasciava sperare ad ogni potenziale concorrente. A tali doti ella sapeva inoltre unire anche una voce alta, limpida e pura che lei stessa usava con modo ed estro sapienti. Il suo cognome era stato italianizzato come Favaretto e da qui, per effetto di una amichevole, e forse un tantino irrispettosa abbreviazione, derivava l’abitudine diffusa tra i coristi di chiamarla semplicemente Salima Fava. Dal canto suo anche il maestro, che si chiamava Enrico Maria Ravazzoni, veniva chiamato semplicemente Rava per brevità confidenziale, dando luogo all’allusiva espressione secondo la quale “il Rava e la Fava” comandavano il coro.

Ad alimentare il clima di amicizia e cordialità del coro con questa ed altre battute era in particolare un gruppetto di amici burloni, equamente distribuiti tra bassi e tenori, i quali traevano ispirazione dai più svariati episodi di vita corale nonché da nomignoli e caratteristiche dei vari personaggi. La Fava stessa era una fonte di ispirazione: quante volte a lei venivano dedicate mirabili filastrocche vernacolari che poi rimanevano più o meno segrete, sussurrate di bocca in bocca tra i beffardi compositori. Infine Salima la Fava aveva tra le sue preminenti caratteristiche, oltre, come vedremo, alla perfetta tornitura del seno gentile, uno straordinario sguardo magnetico che proiettava sul maestro, e peraltro non solo su di lui, un sentimento maternale ed ipnotico tale da catturare l’attenzione dell’intero coro fin dal suo primo apparire nella sala prove dell’auditorium. E quando appariva la sera del concerto, una longilinea e statuaria figura si stagliava mirabile nel tralucere della tunica velata. Insomma era la Donna eccelsa, concepita e voluta dalle più alte sfere celesti per indicare la perfezione al genere umano. Ma, haimè, a tale e tanta perfezione mancava però il dettaglio trionfale: all’attacco di ogni brano non v’era sobbalzo alcuno.  

 

Di tutto ciò, comprese le allusive battute su di lei e il maestro, lei era consapevole. E non si dava pace di esser vittima di un  paradosso che le mortificava l’ego: come era possibile che un corpo perfetto, scolpito nel pilates, con un seno di pitagoriche proporzioni controbilanciato da glutei di ginnica convessità, non sapesse generare quel magico fremito sussultorio che catturava l’anima dell’amato maestro? Eppure, haimè era proprio così…

Ah! maledette ore sulla pedana vibrante! Ah! Maledette diete personalizzate! Alla fine gli occhi del maestro volteggiavano lampeggianti sempre sull’altro seno, quello prosperoso e fin troppo prospiciente della sua vicina di voce, la soprano Stella Maria Gabrielli. Una signora più stagionata circa la quale, con tutto il rispetto amicale del caso, la Fava non poteva fare a meno di notare che costei si caratterizzava per una massa corporea ad limina extremitatis e si proponeva con una voce che era certo alta e potente, ma non flessuosa e penetrante come la sua.

 Che fare? S’era domandata più volte. Avrebbe tentato di tutto. All’inizio non capiva, aveva cercato di attribuire le cause ad aspetti canori o a differenti tecniche di vocalità. Aveva provato diversificati tipi di appoggio sul diaframma, aveva adottato procedimenti respiratori che rilassassero maggiormente le spalle nella speranza di lasciar più morbido l’apparato mammellare; aveva cercato, esercitandosi a casa, spinte sussultorie che premessero, seppur delicatamente, i muscoli pettorali al momento dell’attacco, ma sempre senza ottenere la minima inversione di tendenza nello sguardo del maestro. Alla fine, non senza aver consultato appositi libri e interrogato confidenziali personal trainers, maturò la convinzione che si trattava di una differenza… come dire, fisiologico razziale. Si fece strada nella sua mente infatti la consapevolezza che il seno della Gabrielli rispondeva al tipo europeo mediterraneo, come nei film neorealistici, mentre il suo rispondeva al tipo afro, camitico, come in Lola Darling di Spike lee. Inoltre le differenze tra loro andavano ricondotte a fattori non di volume ma di tumor mamilla cuspidis.  Cioè, in pratica, senza indulgere nel dettaglio sconveniente, i due tipi di capezzolo erano strutturalmente differenti e davano luogo a risposte che sotto il profilo morfologico erano diverse anche a fronte delle medesime sollecitazioni motorie. Come dire che anche ammettendo che Salima fosse mai riuscita ad ottenere lo stesso moto sussultorio nel seno e nello stesso momento della Gabrielli, ciò che realmente attirava lo sguardo del maestro sarebbe avvenuto solamente nel seno di quest’ultima. E tutto ciò nonostante si fosse verificata la medesima impostazione della voce, il medesimo appoggio sul diaframma e la medesima spinta toracica.

 

Accettare questa spiegazione fu per lei drammatico. Dovette scartare anche l’idea di una chirurgia plastica perché, secondo una rivista da lei consultata, lo stesso problema era stato in tal modo affrontato dalla nordamericana cantante rock, Tina Turner anni addietro, ottenendone si un effimero profilo estetico, ma pagando un alto prezzo in termini, ancorché economici, di sensibilità e morbidezza. Cioè proprio ciò che a lei serviva. Che fare quindi? Rinunciare a coltivare il desiderio per il maestro? No, avrebbe dovuto abbandonare il coro. Si sforzò di ignorare il problema, ma si rese conto che ciò sminuiva la sua tensione canora. In breve si rese conto che ne aveva fatta una vera e propria ossessione.

 

 *

 

Alla ventiseiesima edizione del Congresso Mondiale di Canto Corale partecipò anche il coro Aetherea Vocis. Grazie all’interessamento della Fava stessa, la quale seguì con sapiente dedizione l’intero iter di iscrizione, comunicazione del programma di sala, prenotazione dell’albergo ecc., l’organizzazione fu perfetta. Il viaggio in pullman fu allietato dall’ascolto delle migliori registrazioni dei concerti, ascolti di volta in volta commentati criticamente dal maestro e spesso applauditi dai coristi stessi. Uno scioccante scenario alpino accolse il festoso consesso in un sogno d’amicizia e assoluta musicalità. La manifestazione canora, finanziata direttamente dalla massima Autorità Musicale della Unione Europea, aveva un carattere esclusivo ed era articolata su più giornate con cicli di concerti di differente approccio tematico. Così la sezione dedicata alla coralità di montagna non impegnò il coro in quanto tale e una parte dei coristi poté dedicarsi a varia attività alternativa al canto: chi allo shopping, chi al turismo museale, mentre la parte non riluttante dei coristi poté dedicare la giornata all’ascolto di tale genere, compresa qualche esilarante esibizione riservata agli escursionisti, nonché ai cantori d’alta quota. Tra questi la nostra Fava ebbe un moto di emozione quando le venne chiesto di iscrivere anche la Gabrielli all’escursione sul ghiacciaio della montagna piatta (sic). Tenne però per sé tale intima soddisfazione.

Il destino però ebbe a manifestare la sua iperbole tragica nel terzo giorno della rassegna, quando, secondo programma, ebbe luogo l’incontro con la coralità israeliana, circostanza in previsione della quale era stato preparato il canto tradizionale ebraico Hava Nagila. Si trattava di eseguirlo non esattamente durante il concerto sul palco, ma durante i festeggiamenti amichevoli che intercorrevano tra i cori alla fine, durante i rinfreschi. La Gabrielli non avrebbe avuto un particolare ruolo in tale canto se non fosse che il giorno prima la giovane ragazza del coro che era stata inizialmente incaricata di danzare durante l’esecuzione, si fece male alla caviglia durante il ritorno dalla montagna piatta. Preso alle strette il maestro chiese alla Gabrielli di accompagnare con alcune mosse l’esecuzione e costei accettò di buon grado. Scenicamente fu la scelta giusta, ma nel cuore di Salima venne evocata la fine. L’audace scollatura adottata da Stella Maria per la serata ebbe notevole successo tra gli israeliani e portò in alto i toni. Al terzo bis il maestro stesso, esterrefatto per l’esaltante successo, al crescendo di uru akim belev sameah tralasciò platealmente la direzione inginocchiandosi e ritmando il battimano davanti al corpo della Stella danzatrice. Salima interpretò questo gesto come il segno della seduzione e lesse in quel battimano l’applauso al seno della sua rivale in amore. Pensieri di morte le avvolsero il cuore e la sua mente calcolatrice fu invasa di desiderio letale.

 

**

HaGiv’ah Belen Cruzah era originario di Haifa, città del nord di Israele affacciata sul mediterraneo. La sua famiglia era composta da ebrei sefarditi ed era cresciuto all’ombra del noto Stella Maris Monastery. Egli aveva potuto studiare per intercessione di strutture cristiane occidentali insediate presso il quartiere della ex colonia germanica e crescendo si era via via avvicinato ai circoli radicali della ultra sinistra israeliana. Alla morte per assassinio di Yitzak Rabin aveva fatto intimo giuramento di vendetta e nel successivo decennio aveva sviluppato un intenso, quanto segreto, training di affiliazione terroristica. Si trovava nelle alpi austriache in quanto componente del coro Open Voices from Israel, nel quale cantava con ruolo tenorile, ma in realtà partecipava clandestinamente ad una missione suicida. Il suo compito, per il quale era stato inserito sotto copertura da oltre un anno, era quello di seguire, spiare ed infine eliminare, un altro componente del coro, anch’egli esponente clandestino, ma del campo avverso. Oltre alle lingue arabo e inglese egli sapeva esprimersi in tedesco e aveva studiato latino. Ma ad attrarre la Fava in quella notte fu soprattutto un’altra caratteristica del giovane: il tratto nordafricano. Egli colpì la nostra soprano fin dal primo approccio, anche in senso fisico perché la urtò involontariamente mentre lei, incupita, si destreggiava tra un piatto di tramezzini e pasticci di baba ganush. Si presentarono come Belen e Salima, ma lui udendo il nome la guardò intensamente e la corresse: “Salimah”. Lei ne rimase profondamente turbata perché sentì per la prima volta riaffiorare, evocata da quella semplice correzione di accento e pronuncia, la vera natura delle sue origini. Nel volgere di una quindicina di minuti i due si trovavano all’esterno dell’edificio che ospitava il rinfresco e, nello scioccante scenario dell’Alpengluhen, ebbero la notte di Ehrengard proprio come solo Karen Blixen la seppe narrare nel suo intenso romanzo d’amore e seduzione.

 

Il giorno successivo assieme all’alba giunse la domenica dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Il culto locale era rivolto da secoli a questi ebrei che furono primi martiri del cristianesimo e veniva celebrato con processioni in costume caratterizzate dallo sfilare di ricche portantine con statue lignee. In quell’occasione il corpo degli Schutzen tirolesi sfilava armato dei fucili Mauser k98 caricati a salve e al di fuori delle chiese si diffondeva il canto Ein Tiroler wollte jagen. In piena aria di festa dalla cittadina austriaca nella quale si era tenuto l’incontro corale del kulturzentrum i vari cori si spostarono in Italia, raggiungendo con brevi tratti di pullman l’ampio piazzale di una ricca cittadina confinaria ove era prevista la premiazione finale. Durante questo viaggio in pullman arrivò la notizia che il coro aveva vinto il primo premio. Salimah lo annunciò dal microfono del pullman e si diffuse un clima di particolare gaiezza ed euforia. Il gruppetto burlone dei coristi vernacolari aveva uno strano atteggiamento sornione e pronunciava la parola pullman inserendovi una vocale così da trasformarla in “pullaman” o meglio: “pull a man” che, inteso in lingua inglese, significa tirare un uomo, evocando l’allusivo significato di “tirati addosso un uomo…, fatti un uomo”. Inizialmente Salima temette che fosse uno sfottò rivolto a lei a seguito di una malaugurata scoperta della sua avventura notturna, ma poi, esaminando mentalmente, battuta dopo battuta il significato maccheronico dei rozzi versi vernacolari che giravano si accorse che alludevano a un’altra coppia: “Sumens illud…“felix coeli porta”  …“Gabirelis ab ore”… Oh, cazzo!  - le sfuggì – la Gabrielli s’è fatto il maestro!

 

***

Raggiunsero il piazzale della premiazione. Un evento massivo che si aggiungeva alle processioni locali. I volontari del servizio civile che presidiavano i percorsi di assembramento, aiutati con professionale riserbo dagli addetti al servizio di sicurezza, si facevano consegnare pali, cartelli e aste portabandiera prima dell’entrata in piazzale al fine di evitare la circolazione di armi improprie. Anche il coro del maestro Rava giunse all’appuntamento e la bella notizia di essere destinatari del primo premio rese i coristi particolarmente trepidanti. Salimah era raggiante. Indossava ancora il collare di perle marine che  HaGiv’ah  Belen Cruzah le aveva donato a ricordo della notte di passione. Il collare, parzialmente velato dal foulard di seta che le avvolgeva le spalle, era un collier di perle e ninnoli colorati, di varia fattezza e dimensione, che ostentava al centro una argentea stella marina.   Perle marine, collare

Lei sapeva che all’interno di quell’aggeggio era stato riposto un sensore a radiofrequenza in grado di attivarsi captando, in una area ellittica di 25mt di lunghezza per 15mt larghezza, il suono di 440 Hz che viene emesso dal diapason. Una volta attivato, l’apparecchio emetteva un fascio di ultrasuoni che a sua volta innescava un apparecchio dinamitardo sottostante al palco delle autorità. E da quel momento rimanevano solo poche frazioni di secondo prima della soverchiante esplosione. A pochi metri dal palco delle autorità, politici e funzionari europei, nonché illustri organizzatori del Congresso Mondiale di canto Corale, stava HaGiv’ah Belen Cruzah spalla a spalla con l’uomo che doveva eliminare, Hamin Kranz-Bergen, capo clandestino di una organizzazione segreta per l’indipendentismo tirolese.

Quando furono davanti al palco cerimoniale Salimah Favaretto ricevette un messaggino di tono affettuoso al cellulare. Egli, stava scritto nel messaggio, l’avrebbe nuovamente messaggiata durante l’esibizione canora per immortalarla nel pantheon delle più belle donne del web sotto la scritta: “Ave Maris Stella, dei mater alma, felix coeli porta”. E lei rispose che sì, portava ancora quel magico collare e solamente lui avrebbe potuto toglierlo dal suo corpo quando si fossero visti ancora, in un ultimo incontro celeste. Ave o Maria, stella mattutina, madre dell’anima divina, dolce porta del cielo.

 

Lo speaker ufficiale nominò il vincitore e consegnò il relativo attestato al presidente e al direttore del coro, i quali si concessero ai fotografi e strinsero le mani delle autorità tra i vividi applausi della folla.

Infine, pochi muniti dopo, con rinnovato moto d’animo il maestro Rava profuse un’intensa atmosfera di solennità al rito di intonazione e quindi, nel perfetto silenzio del pubblico, dette l’attacco.  

 

 

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12 luglio 2011 2 12 /07 /luglio /2011 00:44

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Ieri, 11 Luglio, è stato l’anniversario della morte di Giorgio Ambrosoli, ucciso da William Aricò, killer di Cosa Nostra su mandato di Michele Sindona, abile finanziere mafioso e piduista. Penso sinceramente che sia molto importante tenere viva la memoria di quell’uomo e di ciò che fece; penso anche che il miglior modo di farlo sia leggere il libro di suo figlio.

Ricordo che all’epoca erano i giorni in cui stava nascendo mia figlia e non capii affatto l’importanza di quell’omicidio, ma oggi essa è chiara per i processi che si sono succeduti sul caso Sindona e soprattutto perché nel 2009 grazie all’editore Sironi, suo figlio Umberto ha pubblicato quest’ottimo libro che ricostruisce e sistematizza molte cose. Non tutto però. Io l’ho letto con molta soddisfazione nei giorni precedenti alla presentazione, in una serata molto partecipata, che Umberto fece qui a Valdagno. In quell’occasione ebbi anche l’occasione di scambiare con lui alcune domande sugli aspetti da chiarire. Eccone alcuni.  

Sindona nelle sue lettere fece più volte riferimento al pericolo di rivelazione di segreti di stato. E’ possibile che la motivazione decisiva per l’assassinio sia stata la necessità di eliminare un uomo che sapeva troppo più che quella di fermare un’inchiesta sugli illeciti finanziari. L’omicidio infatti avviene appena dopo l’inizio degli interrogatori americani per rogatoria, quando gli avvocati constatarono che Giorgio Ambrosoli era in grado di spiegare molto più di quanto gli americani sapessero e anche fornire documenti che avrebbero potuto mettere in crisi la verità ufficiale sui finanziamenti CIA ai militari golpisti stabilita nel 1976 dalla commissione parlamentare USA. Molti documenti in questo senso compromettenti erano già stati fatti sparire precedentemente con un furto, ma già dalle prime deposizioni gli americani poterono rendersi conto che Ambrosoli sapeva tutto a memoria e avrebbe potuto far ricostruire gli atti con estrema precisione. Occorreva fermare le rogatorie. Quell’omicidio non è servito a Sindona, semmai ha aggravato la sua posizione. Inoltre la campagna criminale di intimidazione portata avanti da Sindona, Venetucci, Vitale e Arico aveva come obiettivo quello di annichilire le resistenze al piano di salvataggio e aveva come target tanto Cuccia quanto Ambrosoli, ma solo quest’ultimo è stato ucciso. Perché?

I segreti in gioco non erano solo le tecniche dei contratti fiduciari che Sindona utilizzava, ma anche questioni politico militari che coinvolgevano i rapporti tra Americani e NATO (tema di attualità), aspetti che erano rimasti in ombra nelle inchieste statunitensi. In particolare nella vicenda FASCO , ben ricostruita nel libro, Ambrosoli oltre che realizzare una brillante operazione di aggiramento del segreto bancario (altro tema di grande attualità) era sicuramente venuto in possesso di materiale di prima mano relativo a operazioni segrete condotte dagli alleati al di fuori – e forse in barba - dei piani Nato. Perché la CIA (come dimostra la vicenda Finabank sui colonnelli greci), si serviva di Sindona per canalizzare i finanziamenti occulti.

Su questi aspetti Umberto Ambrosoli mi disse che non potevano essere esclusi, ma purtroppo non fu possibile dimostrarli nel processo.

 

L’altro grande punto su cui sono rimasto insoddisfatto dalla ricostruzione fatta nel libro riguarda la morte di Sindona. Il libro, a pg 297 dice che Sindona muore nel carcere di Voghera dove era detenuto. Non è così, Sindona è morto nel reparto rianimazione di un Ospedale, quindi fuori dal carcere, dopo 56 ore di agonia. Umberto in una nota a piè pagina prende in considerazione l’ipotesi che Sindona abbia assunto volontariamente il veleno, ma non per morire, solo per dimostrare che non c’erano le condizioni speciali di sicurezza per lui e far scattare la clausola di estradizione in America prevista dal trattato. Io credo in questa spiegazione. Sappiamo che la preferenza per le carceri degli Stati Uniti era stata manifestata da Sindona pubblicamente proprio la sera prima in una celebre intervista televisiva fatta da Enzo Biagi. Ora, in questa ipotesi se qualcuno avesse avuto la volontà di sopprimerlo avrebbe potuto farlo solo nel reparto di rianimazione. Perciò questo particolare non è secondario. Ma temo che sia un aspetto che purtroppo non sarà mai più chiarito. Ancora. A un certo punto della vicenda Sindona andò in rotta con Calvi e attaccò duramente il Banco Ambrosiano. Non mi ricordo se sia stato o meno dimostrato che fu lui a far mettere addirittura dei manifesti su tutti i muri della città che rivelavano le malefatte e le irregolarità della banca. Come mai questo aspetto non viene toccato nel libro, anzi non si parla mai del caso Calvi?

Infine un altro limite del libro, peraltro molto bello su tutti gli altri aspetti, riguarda la figura di Cuccia. In pratica non si capisce se in questa vicenda Cuccia è stato un buono o un cattivo. Da un lato ha tenuto nascoste informazioni importanti per valutare la condizione di sicurezza di Giorgio Ambrosoli (l’affermazione esplicita di Sindona circa la volontà di far sparire Ambrosoli) dall’altro contribuì a tener duro rispetto al piano di salvataggio e alle relative pressioni di Andreotti.

 

Nell’85 (circa) è uscito il libro In God’s Name dell’inglese David Yallop il quale nei capitoli finali ricostruisce tutti gli aspetti noti al quel tempo relativi alla vicenda della finanza cripto-golpista italiana. Yallop collega la morte di Ambrosoli a quella di Boris Giuliano, col quale si era incontrato pochi giorni prima. E’ probabile che tale incontro avesse come oggetto riscontri relativi al riciclaggio di capitali ricavati col mercato della droga. Anche Varisco, che venne ucciso dalle BR il giorno dopo Ambrosoli, sarebbe collegato, per via delle sue indagini sulla P2. Infine  non si può dimenticare che Mino Pecorelli venne ucciso qualche mese prima in Piazza delle 5 Lune, ovvero davanti alle finestre di Varisco.

Questi aspetti sono ancora tutti da chiarire. Penso che tenere viva la memoria di un uomo che fu grande esempio di onestà e rigore, proprio ciò di cui c’è gran bisogno oggi, tenga vita la speranza di conoscere un giorno tutta la verità.

 

 

 

 

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11 luglio 2011 1 11 /07 /luglio /2011 07:21

 Il Seno, copertina

 

Il Sole 24 Ore della Domenica ci regala un’altra grande lettura da mezzo euro, e a leggerlo si fa un vero affare.

IL SENO è un racconto del 1972. Il narratore protagonista è David Kepesh, un personaggio che riapparirà in altre opere successive di Philip Roth dando luogo ad una trilogia. Egli ha un ufficio presso la facoltà di Scienze umanistiche a New York, è ebreo e si presenta come un trentottenne in forze, anche se un po’ ipocondriaco, perseguitato da uno strano formicolio all’inguine. E’ in analisi e narra in prima persona. Dopo i primi sintomi, con una “incubazione” di 21 giorni la carne attorno al pene diventa rossastra e da qui prende avvio una trasformazione totale del suo corpo che lo fa diventare un enorme seno di donna di settanta chili. Il fatto accade tra la mezzanotte e le quattro del mattino del 18 febbraio 1971 e consiste in una trasformazione in ghiandola mammaria scissa da qualsiasi forma umana. Una massa di settanta chili descritta dettagliatamente nelle pagine 17-19, con un capezzolo rosa, dotato di “una squisita capacità tattile”  le cui aperture forniscono bocca e orecchie rudimentali. Non ha occhi e la diagnosi medica è sostanzialmente quella di uno squilibrio endocrino. La curiosità del lettore, ovviamente, si concentra sulle cause di questo fenomeno e in questa parte iniziale il testo si diffonde per una mezza dozzina di pagine a descrivere il suo rapporto con Claire, dal quale qualche segnale di stranezza era effettivamente pervenuto negli ultimi tempi anticipando ciò che stava per succedere. “Sono diventato un seno” ammette David Kepesh e questa nuova condizione, per quanto misteriosa e in comprensibile, crea nel protagonista uno stato di eros che si manifesta ogni volta che Miss Clark, l’infermiera del Lenox Hill Hospital in cui è ricoverato, lo lava. E’ una intensa trance erotica descritta con perizia ed equilibrio nelle pagine 24 e 25. La scienza medica studia il suo caso, attratta più che altro dal fatto che egli non sia morto. Questa sua condizione, che egli comunque definisce “incredibile catastrofe”, non ha vie d’uscita e, per quanto drammatica, non distrugge traumaticamente il suo equilibrio psichico, ma lo erode causando via via varie crisi di rifiuto che turbano e disturbano progressivamente la sua personalità. Questo travaglio, che durerà quindici mesi, è il tema della narrazione. Qui entra in gioco la figura importante del suo analista, il quale lo considera una sorta di “cittadella della sanità mentale” e David Kepesh, da persona equilibrata che prende progressivamente cognizione del suo stato, descrive dettagliatamente i vari aspetti di questa nuova e straordinaria situazione, da quelli psico-fisici fino alle reazioni delle persone che vanno a trovarlo. Dopo alcune pagine dedicate alla descrizione del comportamento del padre, il quale sostanzialmente finge di ignorare questa anomala condizione e va a trovarlo parlandogli come se niente fosse, è la volta di Claire, la sua donna. Con l’introduzione di questa figura inizia un percorso che poi a pg 36 ci offre un primo tentativo di spiegazione di quanto è successo, laddove il narratore dice: “Ecco. Per quelli di voi che preferiscono una favola alla vita, ecco la morale della storia. << La realtà ha stile>> conclude l’amareggiato professore che, per ragioni sconosciute a lui stesso, divenne un seno.“ E’ una frase che ha il sapore di un finale, inoltre qui c’è un implicito rivolgersi ai lettori, quelli che preferiscono la favola alla vita. E questo timido spiraglio di uscita in realtà indica la direzione che poi l’autore sceglierà per il finale.roth1

Claire è un personaggio indovinato, degno di questo autore, che è indiscutibilmente di alto livello. In poche righe qua e là sappiamo tutto di lei, della sua famiglia ecc. e ci rimane impresso soprattutto che ella è:”qualcosa da vedere, una bionda con gli occhi verdi, alta e snella e con i seni pieni…”. Costei è una venticinquenne maestra elementare, e non mi è chiaro se sia moglie (nel qual caso sarebbe la seconda) o semplicemente una compagna stabile. E’ un personaggio positivo, una donna che lo ama ed è portatrice di una sessualità a mio avviso assolutamente comune, ma resa magica dalla scena d’amore ambientata tra le dune di Martha’s Vineyard. Una pagina di narrativa erotica di qualità che non risparmia dettagli. Claire dopo alcuni primi giorni di sconcerto gli propone massaggi al capezzolo e dopo un po’ di tempo , quando questa pratica si consolida egli viene inondato di desiderio erotico e comincia a temere di perderla a causa del suo troppo chiedere. Anche l’infermiera che lo lava ogni mattina lo pone in una condizione di eccitazione perenne. In breve egli si rende conto che in questa condizione è destinato a diventare una “massa di carne smaniante e nient’altro” (pg 40) e, dopo aver inutilmente provato a corrompere l’infermiera, intraprende con il dottor Klinger, l’analista, l’impresa di tentare l’estinzione del desiderio. Dopo alcuni altri tentativi, l’obiettivo vene in parte raggiunto attraverso la pratica infermieristica di anestetizzare parzialmente l’area del capezzolo durante le abluzioni e cambiando il turno degli infermieri che si occupano di lui, così da farsi fare le abluzioni mattutine da un infermiere maschio. Ciò porta ad escludere l’omosessualità, anche in termini di semplice latenza, dalle caratteristiche del personaggio. Ogni sera comunque, quando arriva Claire i rapporti continuano “normalmente” anche se si caratterizzano per il fatto di non produrre mai un orgasmo finale, ma solo un “senso continuato di eiaculazione imminente durante il quale mi contorco dal primo all’ultimo secondo”.

A questo punto, siamo a pg 45, dopo aver “vinto la battaglia contro le bramosie falliche del mio capezzolo” il nostro protagonista-mammella tenta di aprirsi alle relazioni sociali e comincia anche a pensare a qualche maniera per riprendere il suo lavoro all’università. Abbiamo quindi la visita di Arthur Shonbrunn, collega e superiore universitario. La visita però non va bene, costui manifesta ilarità per la condizione anomala in cu trova Mr. Kepesh, una situazione che di fatto non riesce a reggere per cui finisce con l’andarsene anzitempo. Mr Kepesh non riesce ad accettare questo “infelice comportamento” (pg55) e a questo punto della vicenda tenta una fuga dalla realtà. Inizia qui un andamento del racconto che progressivamente chiamerà in causa la letteratura ed in particolare come vedremo alcuni autori particolari dai cui scritti si capisce quali siano stati i fattori di ispirazione di tutto il racconto. Il testo rimane sempre di alta qualità e apre di fatto una nuova linea di comunicazione col lettore. Nella parte finale troveremo questa caratteristica in modo più esplicito. Tornando alla storia, le difficoltà nel rapporto col collega/amico Shonbrunn inducono Kepech a pensare di essere in realtà vittima di illusioni e stare solo dentro ad un sogno. Per un’altra mezza dozzina di pagine viene dato conto delle discussioni terapeutiche col dottor Klinger, prendendo anche in considerazione i nessi tra le allucinazioni che il protagonista vive e le suggestioni esercitate sulla sua immaginazione dalle letture di Kafka (la metamorfosi), Gogol (Il naso) e Swift (Viaggi di Gulliver), ma il dottor Klinger insiste a sostenere che la sua condizione è reale. La crisi di rigetto prosegue anche con episodi di conflitto col terapeuta come ad esempio l’attacco al suo nome. Qui (pg 61) abbiamo un intervento esplicativo del traduttore (Silvia Stefani) che in una nota a piè pagina chiarisce che “Clinger” è in inglese colui che si aggrappa, si avvinghia a qualcosa. Nel personaggio questo doppio significato del nome, rafforzato dalla lettera Kappa, rafforza il suo carattere di custode inflessibile e rischiava di venire perduto con la traduzione in lingua italiana. La terapia prosegue col ripasso degli episodi chiave dello sviluppo psichico del protagonista fintantoché, anche con sedute che avvengono in presenza del padre, il nostro protagonista che finalmente viene chiamato con l’appellativo anagrafico completo David Alan Kepesh, accetta la propria condizione, nega la propria ipotetica pazzia e anzi sta al gioco fino a chiedere la prova di essere una mammella, cioè essere messo in grado, tramite cure ormonali con agenti lattogeni, di produrre latte. (pg 65) Qui mi limito a notare che il ruolo della figura paterna in questa storia è più profondo di quanto sia lo spazio narrativo ad essa dedicato, lasciando intendere forse l’esistenza di una problematica che sta più dentro all’autore che al personaggio protagonista. E arriviamo quindi alla parte finale.

Dopo quindici mesi il nostro protagonista è ancora nella condizione di essere un seno e passa le mattinate ad ascoltare le opere di Shakespeare sui dischi regalatigli da Shonbrunn. Le sofferenze degli eroi shakespeariani non bastano a consolarlo, egli continua a ritenere le sue assai superiori. Ciò nonostante quegli ascolti confermano la sua profonda passione per la letteratura, al punto che anche il lettore comincia ad intuire che è proprio questa la causa della sua trasformazione fisica, trasformazione che ormai possiamo chiamare apertamente “metamorfosi” in pieno senso kafkiano.

Il capitolo finale è un testo complesso, che io dividerei in più parti. La prima serve a condurre il lettore al metalivello narrativo in cui si parla direttamente al lettore (“caro lettore”, pg 70) per dirgli esplicitamente che “Questa non è una tragedia come non è una farsa. E’ soltanto vita, e io sono umano”. La seconda inizia da qui con il protagonista che chiede al Dottor Klinger: “E’ stata la narrativa a ridurmi così?”  e queste sono a mio avviso le parole magiche del racconto, perché rappresentano il punto di congiunzione tra autore e narratore. No – risponde il dottor Klinger (Clinger) – “gli ormoni sono ormoni e l’arte è arte. Lei non è vittima di un’ overdose delle grandi fantasie.” Quindi la fabula continua, ma da  qui in poi la civetteria letteraria del grande scrittore prende il sopravvento. Voglio uscire di qui, dice il protagonista narratore e ora questa invocazione assume il significato narrativo più chiaro: “sono arcistufo di preoccuparmi di perdere Claire”…voglio il finale della storia… e per ottenerlo occorre ricorrere alla letteratura. “Amavo l’estremo in letteratura, idolatravano quelli che lo creavano, ero praticamente ipnotizzato dalle immagini e dalla loro suggestione… Dunque ho fatto il salto. HO RESO LA PAROLA CARNE.”  Ecco quindi la spiegazione che di ciò che gli è accaduto: “Non vede (dottore) sono più kafkiano di Kafka”. E tutto questo ha avuto successo: “Amico, io farò un mucchio di quattrini.” (pg72). Nel racconto infatti questa sua condizione gli ha fatto raggiungere una fama mondiale, ma non potrà mai uscirne. Pero è possibile che grazie questa a fama “io abbia acquisito greggi intere di pecore universitarie digiune della poesia come della calamità”.  E qui siamo giunti alla fine del percorso, ora c’è solo il tuffo nel finale vero e proprio che ci porta dentro i versi di Rainer Maria Rilke, nel Torso arcadico di Apollo. Iperbole letteraria. apollo-torso-arcaico-louvre-rilke

 

Il volumetto, stampato in maggio, è uscito in giugno 2011. Il racconto originale è The Breast, secondo la nuova edizione americana con Copyright 1980. Prima, nel 1973, ne era uscita un’edizione di Bompiani, con il titolo de: “LA MAMMELLA”. I diritti erano stati poi acquistati dalla casa editrice Einaudi, la quale quest’anno ha ceduto la licenza di pubblicazione alle edizioni speciali del Il Sole 24 ore.  La traduzione di Silvia Stefani risale al 1973, per Bompiani. Le successive opere della trilogia con David Kepesh (“Il professore di desiderio”, 1977 e “L’animale morente”, 2001) sono state fatte da altri. Philip Roth, in quanto scrittore, nel maggio scorso ha vinto un prestigioso premio internazionale di letteratura, assegnato a Sidney da una giuria della quale per l’Italia faceva parte Dacia Maraini.

Sul web si trova un sacco di roba su di lui, sul suo ebraismo e sul suo presunto antifemminismo ecc., compreso l’invito a non scambiarlo per il barone Philip Rothshild, esponente della famosa casa di presunti padroni del  mondo… Come sempre questa mia non vuole essere una recensione, ma il racconto di una esperienza di lettura del tutto libera e soggettiva.

 

 

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20 giugno 2011 1 20 /06 /giugno /2011 15:07

 

Copertina-Sepulveda.jpgAl prezzo di mezzo euro, nella settimana in cui la corte brasiliana ha deliberato sul caso Battisti e durante la quale a Mosca è stato ucciso con modalità professionali, da un killer con tratti occidentali, un criminale di guerra, il Sole 24 Ore è uscito col terzo volume della sua collana di RACCONTI d’AUTORE che, guarda un po’, s’intitola Diario di un killer sentimentale. In questo racconto l’innominato killer è di ritorno da un omicidio a Mosca e narra una nuova storia. Qui narratore e protagonista coincidono e l’io narrante usa il tempo presente. Il punto stilistico principale è che questo protagonista/narratore compie le azioni che descrive infarcendole di cinismo, sciovinismo, macismo ecc.  ma tutto questo è scritto con maestrale ironia ed efficace semplicità al punto da risultare simpatico. E’ tipico del noir leggero e seduttivo, dove la violenza non è orrore e un sottile velo di morbosità scioglie ogni resistenza morale del lettore in ogni capitolo. Questo racconto di Luis Sepùlveda, che è del 1996 e in Italia è uscito due anni dopo per i tipi parmensi di Ugo Guanda, ci prospetta reati gravissimi come l’omicidio professionale o la violenza ricattatoria come aspetti di alta e distaccata professionalità. La traduzione di Ilide Carmignani è gustosa e penso che renda bene l’ironia un po’ ipocrita e ladruncola del castigliano cileno. Non che io abbia letto l’originale ma lo immagino scritto in quell’idioma cantilenante, melodrammatico e assolutamente privo di “esse”che ho conosciuto nel 1993 e che ben si attaglia, come del resto si addice ad un madrelingua, alla furbissima narrativa sepulvediana.

 

La vicenda è da musica ispanoamericana, ma niente tanghi o milongas, cose troppo serie, bisogna affidarsi alla ritmata affabulazione melodica di un buon gruppo di “mariachis” messicani. Essa si snoda in sette giorni, ma non quelli biblici, che corrispondono a sei capitoli perché suppongo, il settimo verrà dedicato al riposo, e racconta di un killer che è sentimentale solo nel titolo del libro perché di amore ce n’è ben poco in questa ultima storia che si accinge a vivere. Qui si vedono varie tecniche di eliminazione di nemici che quasi sempre sono a loro volta  killer, farabutti di alto bordo o, come in questo caso “filantropi della droga”. Alcune di queste modalità risultano fumettistiche ed esagerate come quella di mettere un bomba a mano innescata sul petto di un uomo legato ad una sedia e ferito in modo dissanguante cosicché quando arriva la polizia appositamente chiamata nessuno ha il coraggio di avvicinarsi e il poveretto muore dissanguato mentre  si aspettano i corpi speciali per il disinnesco. Si tratta evidentemente di una modalità di delitto che implica la testimonianza e la certificazione della morte da parte delle stesse forze dell’ordine per cui è impossibile nascondere o coprire l’eliminazione. Anche coprire l’eliminazione di una coppia di amanti che vengono uccisi nel loro stesso letto con una esplosione del gas che la fa sembrare un incidente può essere utile per sistemare discretamente una resa dei conti sentimentale. La resa dei conti tra killers si svolge in Messico dove in effetti tutt’oggi è in corso una guerra tra trafficanti di droga. Insomma una lettura leggera, se così si può dire, perché piena di sesso e violenza come la gran parte della nostra dieta mediatica. Spero che qualcun altro otre a me stesso si senta un po’ avvilito dalla paradossalità di questa affermazione. Sesso e violenza non sono per niente leggeri, ma siamo ridotti a considerarli tali.airline-food.jpg

 

Cosa mangiare? Dunque, innanzitutto la lettura è, dal punto di vista stilistico, rapida e piacevole, per cui si può leggere anche in piedi cucinando, ovvero “spegnatando” in cucina - come si dice a casa mia – senza perdere la concentrazione su entrambe le attività. Per cui se un lettore italiano vuole prepararsi una buona spaghettata faccia pure. Non si possono invece fare cose manualmente impegnative, come potrebbe essere del pesce o anche una semplice insalata di riso, per via dell’uso dei coltelli e della quantità di ingredienti da scegliere e curare. Se poi cerchiamo qualche ispirazione gastronomica con l’aiuto del narratore, allora si può andare dalle quesadillas di Città del Messico all’aragosta, la quale “si mangia con appetito e non con fame”, perché: “ i poveri hanno fame mentre i ricchi hanno appetito” (pg. 61) e pare proprio che fare il killer professionista sia molto remunerativo. Quanto al bere si finisce per pensare alle bollicine dello champagne.  

La storia in sé, con il continuo girovagare del protagonista tra aerei, aeroporti internazionali ed hotels, suggerirebbe un menù internazionale tipo Airline Food, ma né risulterebbe, temo, un pasto pesantino. Si sa infatti, che in aereo si prediligono passeggeri calmi e assonnacchiati… Meglio un’insalata di pomodorini, magari con qualche aromatizzazione e/o aceto balsamico. Attenzione però niente cipolla per chi poi deve cantare in coro. Infine, considerando che il narratore del racconto precisa che viaggia in Concorde, è bene bere una Perrier, mi pare pienamente in sintonia col racconto: ci sono pur sempre le bollicine! Perrier-pour-airline-food.jpg

 

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7 giugno 2011 2 07 /06 /giugno /2011 16:43

puina-e-pinot.jpg 

Eccolo. Al centro della pubblicazione, da pagina 125 a pagina 143, abbiamo la summa del complottismo: i servizi segreti. Piero Colaprico, del quale so dalle note di copertina che ha scritto romanzi gialli con Pietro Valpreda fin che quest’ultimo era ancora in vita, si sbizzarrisce in un ultra claustrofobico minithriller. Un condensato di scene tipiche con esposizione di piani segretissimi e scene d’azione. C’è anche il colpo di scena e il finale dietrologico allusivo. Qui Colaprico, con un marcato gusto della frecciatina sull’attualità e della citazione storiografica, non risparmia né Giorgio Napolitano né Bernardo di Chiaravalle. Con una certa scioltezza, da giornalista scrittore scafato, ci conduce nella cupola delle cupole: il servizio segreto del Vaticano. Forse può sembrare troppo ambizioso o al contrario troppo semplicistico, ma non lo trovo eccessivo, sono normali svolazzi dietrologici che vanno di moda e che hanno trovato in Dan Brown una certa formula ormai ripetitiva. Apprezzo molto invece il rinvio ad Aldous Huxley, più precisamente al suo “Brave New World”, che non viene sviluppato, ma evoca prospettive biotecnologiche che mi solleticano.

 

Il racconto sembra concepito in continuità con racconti precedenti, in particolare Carlotto (con gli altri due) e Varesi. La classe dirigente internazionale è corrotta sotto ricatto, settori variamente integrabili di reti spionistiche combattono tra di loro e anziani protagonisti di storiche, quanto inutili, battaglie contro la mafia complottano ancora per avere la rivincita. Questa volta puntano ad un metodo simil-Assange, pronti a sparare in un sol colpo migliaia di verità letali da un misterioso quanto potente server in Ucraina, ma qui si tratterebbe di “dossier ben più corposi di quella mezza boiata fornita dall’infido Assange”… Un giudice, un carabiniere e un giornalista, figure quasi allegoriche, fanno la parte dei buoni e tutti e tre assieme aspettano l’incontro decisivo col quarto uomo. Ovviamente non dico chi è per non rovinare il pathos giallistico del racconto, ma su ciò che accade in quell’incontro si svolge il plot. Tutto questo a sua volta è raccontato dal narratore il quale è a sua volta uomo chiave della storia e, in fin dei conti, di tutto il complotto mondiale.  

Due le cose che mi piacciono: le puntatine allusive ai fatti reali (Agcà, la Magliana, De Pedis ecc.), l’idea che la “battaglia anti-vaticano sul tema dei pedofili” sia in pratica solo un assaggio per aggiustare il tiro più in alto. Mentre invece trovo irriverente e poco nobile la citazione delle parole di Giorgio Napolitano. “Che faccia la sua parte”, dice il finale, “noi faremo la nostra. Non ci ha spaventato Nerone, figuriamoci se possiamo temere questi maneggioni. Siamo o non siamo nella Città Eterna?”.

Ecco è un semplicistico delirio di onnipotenza che può cambiare un buono in un cattivo e lasciare, come in effetti accade, senza gusto il finale. Peccato perché era iniziato bene. Occorre quindi compensare questo gusto incompiuto con un dolce.

Cosa mangiare?

Proporrei una torta di ricotta, anzi puina, alla veneta come uno dei personaggi. Però semplice, senza arricchimenti esotici come potrebbero essere dei canditi tropicali oppure strani sciroppi che si trovano facilmente nei supermercati, ma non hanno niente di veneto. Penso ad esempio al mango sciroppato. Comunque se qualcuno volesse proprio mettercelo la cosa avrebbe il senso richiamarci il contesto latinoamericano e la lingua ispanica, che in effetti ricorre continuamente in varie parti di testo (pendejo, garrimba, pirobo ecc.).

 

Cosa ascoltare?

Se uno volesse gravare l’atmosfera del racconto già cupa di per sé di ulteriori oscurità, potrebbe sintonizzarsi su Radio3 nella fascia oraria tardo serale, ma forse è meglio alleggerire con qualcosa che richiami piuttosto il vento andino o i grandi spazi di chi domina dall’alto e vede lontano. Non sarebbe male quindi ascoltare El Condor Pasa. Armonia e ritmo semplici ma solenni compenseranno con un’idea popolare, autentica di spiritualità la pesantezza e l’angustia del potere. Inoltre, per onorare alla vicentina il termine OMBRA, scelto dall’autore, degusterei un calice di Pinot.

 

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